venerdì 5 ottobre 2012

5 OTTOBRE - Santi del giorno: John, Paul, George, Richard

Perché Bodhidharma e’ partito per Hollywood?
Immagini d’Oriente nella cultura di massa dell’Occidente



Nel corso di questi incontri [Unisabazia 2008/09] cercheremo di riconoscere le modalità attraverso le quali alcuni aspetti delle culture tradizionali orientali si sono manifestati in taluni “prodotti” della cultura di massa occidentale nel secolo scorso. Laddove per “occidente” si intende l’insieme dei Paesi europei e del Nord America. L’espressione “cultura di massa” non ha una valenza spregiativa (Hesse è un Nobel della letteratura, Forster è stato uno dei maggiori scrittori inglesi del ‘900, The Beatles sono tra coloro che hanno fatto la storia della musica contemporanea ecc.), ma indica che i “prodotti” di cui si parlerà (romanzi, film, brani musicali), hanno riscosso un certo “successo” tra il grande pubblico. Tali “prodotti culturali” hanno contribuito in qualche modo, a loro volta, a “costruire” presso la platea dei “consumatori” una immagine di quelle tradizioni alle quali i loro autori si sono ispirati, o dalle quali sono stati suggestionati.
Così come, per esempio, il nostro immaginario collettivo sull’antica Roma si fonda più sui film made in Hollywood (o in Cinecittà) del genere “peplum” che non sulla lettura dei classici latini o sullo studio dell’arte e dell’epigrafia romana.
Non di rado accade poi che questa stessa “immagine” ritorni al luogo d’origine, contribuendo a sua volta a modificare la percezione che una cultura ha di se stessa.
Un significativo esempio viene dal mondo dello Yoga: quella che nell’India tradizionale era (ed in parte ancora è) una profonda disciplina spirituale che fonde armonicamente corpo e mente, individuo e Cosmo, nel ricco Occidente, in cui ogni cosa diviene merce, è proposta e “consumata” come una tecnica di rilassamento, o un esercizio fisico con un pizzico di esotismo. Ed ecco che dall’Occidente ritorna in India, dove “cinquecento donne hanno partecipato alla III edizione del campionato indiano femminile di yoga” !! (1).
Oppure, ci si potrebbe chiedere come e quanto si è modificata la percezione di se stessi dei Tibetani, laici o monaci o Lama, da quando una certa immagine del Tibet - una sorta di perduta “Gardaland dello spirito” - si è imposta in Europa e America.
Ma questa è un’altra storia, ancora tutta da scrivere (2).


Accordi di sitar e oceani di silenzio nella musica “pop”: dai Beatles a Battiato…anche se si parlerà solo dei Fab Four

Il sitar

Il sitar (dal persiano seh-tar = 3 corde) è lo strumento musicale a corde indiano più conosciuto in Occidente. E’ formato da un lungo e largo manico con 16/20 tasti mobili, e da una cassa armonica fatta con una zucca tagliata a metà con un sottile coperchio in legno. Le corde sono in genere 7 superiori e 11 inferiori, che vibrano per risonanza. Il sitarista oggi più noto è Ravi Shankar (1920), che ha suonato con musicisti quali Yehudi Menuhin, Jean Pierre Rampal, Zubin Mehta, Philip Glass, André Previn…., ed ha insegnato il sitar a George Harrison, chitarra solista dei Beatles.

Anoushka Shankar, figlia di Ravi Shankar
Dall’India a The Beatles (3)

E’ molto probabile che il suono vibrante ed altamente evocativo del sitar si sia materializzato per la prima volta nella musica occidentale moderna nel 1966, nel brano Norwegian Wood dei Beatles (nell’album Rubber Soul), in cui lo strumento, suonato da George Harrison, accompagna la voce di John Lennon (si rammenti che il gruppo nasce ufficialmente nel 1962, e si scioglierà nel 1970). Il testo non ha nulla di “orientale”, ma quegli accordi di sitar aprivano una nuova epoca, nuovi orizzonti, e non solo per la musica. Sebbene il brano sia di Lennon, è evidente l’ispirazione di Harrison, già da allora il più sensibile dei quattro alle prime manifestazioni delle tradizioni orientali nella cultura di massa - soprattutto giovanile – europea e nordamericana. Anche in questo i Beatles (che avevano ascoltato alcuni brani di sitar dai musicisti del gruppo dei Byrds) sono dei precursori. In particolare, oltre a George Harrison (1943-2001), è John Lennon (1940-1980) a “captare” i primi deboli segnali provenienti da India e dintorni: qualche nozione di yoga, evanescenti accenni di zen, alcuni concetti del buddhismo tibetano, e soprattutto suggestioni sonore.
Nello stesso anno, il 1966, esce un album assolutamente innovativo, Revolver, nel quale gli influssi della musica e delle tradizioni spirituali indiane si esplicano pienamente. Questo avviene in due brani, Tomorrow Never Knows (Il Domani sconosciuto) e Love You To (Ti amo fino a...). Il titolo originario del primo, citato nel testo della canzone, era The Void (Il Vuoto) – evidente riferimento al concetto di vacuità (4), centrale nel buddhismo mahayana. Il brano riassume in sé sia le esperienze psichedeliche di Lennon, che aveva letto il Bardo Thodol (5) sotto l’effetto dell’LSD (6), sia gli interessi spirituali di Harrison, il cui sitar introduce il pezzo. Ad esso si affianca la batteria di Ringo Starr, con un ritmo ossessivo che richiama il suono delle percussioni indiane (tabla), e la voce di Lennon, che nella II strofa pare salire dagli abissi. A questo proposito, è interessante osservare che proprio Lennon aveva chiesto al produttore per questo brano un coro di monaci tibetani (ma non gli era stato concesso).
Nella seconda canzone, Love You To, di Harrison, testo e musica forse non raggiungono lo stesso livello di perfetta integrazione. L’atmosfera musicale è tipicamente indiana, come pure gli strumenti (sitar, tambura, tabla). Il testo è invece ambiguo, e non è chiaro se l’amore di cui si parla è l’amore di una persona verso un’altra oppure l’amore cosmico, assoluto, privo di oggetto. Ma se ci si pone proprio dal punto di vista delle tradizioni spirituali hindu e buddhiste, questa stessa separazione risulta apparente, illusoria, essendo l’amore personale solo un aspetto individuale, relativizzato, di un amore più vasto, che trascende la distinzione tra amante, amore e amato (come canta Franco Battiato: “Le gioie del più profondo affetto o dei più lievi aneliti del cuore sono solo l’ombra della luce”, in L’ombra della luce, 1991).
La spinta di Harrison verso l’incontro delle due culture prosegue con un brano del 1967, Within You Without You (Dentro di te fuori di te). Il pezzo fa parte dell’album (ormai leggendario) Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, che porta a compimento la rivoluzione musicale iniziata con Revolver. Il tema è ancora l’amore, qui inteso senza dubbio non come passione individuale, ma come amore salvifico, universale, di cui parlano le scuole della spiritualità indiana. Come insegna lo Yoga, microcosmo e macrocosmo si identificano, gli opposti si incontrano: “tutto è dentro di te”, canta George Harrison, “e la vita scorre fuori e dentro di te”. La vera pace è al di là del piccolo ego (“quando hai visto oltre te stesso, allora potrai scoprire la pace della mente”), che manifesta la sua illusorietà: “siamo tutti un’unica cosa”.
Un fatto testimonia, in questo brano, che il gruppo non è totalmente concorde nel seguire la via spirituale-musicale che George sta percorrendo. All’incisione infatti partecipa lui solo, con un team interamente indiano. Nel suo intendimento, Oriente e Occidente devono incontrarsi: è quanto ci dice, nel brano, il quartetto d’archi che poco dopo l’inizio si va a sovrapporre all’arrangiamento originale. Da Within You Without You in poi si può cominciare veramente a parlare di world music (musica mondiale), soprattutto grazie a George Harrison.
Dopo un altro anno – e siamo ora nell’ormai storico 1968 – Harrison scrive l’ultima canzone “indiana” dei Beatles, che viene pubblicata come lato B di un pezzo più famoso, Lady Madonna. Si tratta di The Inner Light (La luce interiore), nella quale si opera una strana ma perfetta fusione tra la musica, che è evidentemente legata alla tradizione indiana (il flauto è suonato dal famoso maestro Hariprasad Chaurasia), e il testo, che è una versione quasi letterale del cap. XLVII del Tao-te-ching (Il Libro della Via e della Virtù), attribuito al maestro cinese Lao-tzu (VI sec. a.C.), leggendario fondatore della tradizione taoista (7).
Di qui in poi, l’ispirazione centrale di George Harrison, ovvero il richiamo all’interiorità, proseguirà soltanto con la sua attività di solista, dopo lo scioglimento del gruppo.

Prima di quel momento – il 1970 – è ancora da menzionare un brano inserito nell’ultimo album creato dai Beatles, Let It Be. Il titolo è Across The Universe (Attraverso l’universo), di Lennon e McCartney. Il testo riflette ancora una volta gli interessi spirituali di John Lennon, che, dopo la fine dei Beatles, si espliciteranno secondo una modalità meno introspettiva di quella seguita da Harrison, traducendosi in un impegno attivo, anche di tipo politico, a favore della pace. Nella canzone, la voce di Lennon canta a più riprese un mantra hindu, Jai Guru Deva Om (8). Nel complesso, il brano è un inno all’amore, non più visto attraverso l’esperienza psichedelica, ma l’amore che si incontra lungo la via dell’esperienza spirituale, mistica. Anche se, quando si parla di stati “altri” della coscienza, è difficile operare una separazione assolutamente netta tra esperienze “spirituali” ed esperienze vissute per il tramite di sostanze psicotrope. E questo vale sia per la storia dei Beatles (e della cultura giovanile di quel periodo), sia per l’intera storia della spiritualità, dallo sciamanesimo in poi.

The Beatles in India (9)

Nel 1967 George Harrison partecipa ad una conferenza sullo Yoga tenuta, nel Galles, da un Maestro indiano già piuttosto conosciuto in Occidente, Maharishi Mahesh Yogi (Mahesh Prasad Varna, 1911 –o 1917- /2008). Nel 1959 Maharishi Mahesh aveva fondato negli USA la Società Internazionale di Meditazione, al fine di diffondere una tecnica, chiamata Meditazione Trascendentale (M.T.), basata principalmente sulla ripetizione di mantra (assegnati individualmente, secondo l’antichissima tradizione del mantra yoga), e finalizzata al raggiungimento di stati superiori di chiarezza mentale, alla riduzione di ansia e stress, al conseguimento della pace interiore, a livello individuale e collettivo. Al movimento aderiscono ben presto molte figure del mondo dello spettacolo, tra cui Candice Bergen e i Beach Boys (e, alcuni anni dopo, Clint Eastwood).
Harrison e gli altri Beatles ne sono subito affascinati, e partecipano ad un seminario della durata di alcuni giorni, in un centro M.T. del Galles.
L’anno dopo, nel febbraio 1968, partono per l’India (Harrison e Lennon per primi), con l’intenzione di frequentare, presso l’ashram (= comunità) del Maharishi, un ritiro di sei mesi per approfondire la pratica della meditazione. Nell’ashram di Rishikesh, sulle rive del Gange, si ritrovano i 4 Beatles, le mogli di George, John e Ringo, l’attrice Mia Farrow (moglie di F. Sinatra) con la sorella Prudence, due dei Beach Boys, il cantante inglese Donovan, e uno stuolo di accompagnatori e di VIP.


I Beatles in India con Maharishi Mahesh Yogi
I soli a resistere (per 4 mesi) sono Lennon e Harrison, ma anch’essi ripartono, fors’anche a causa di eccessive attenzioni del guru nei confronti di alcune ragazze del gruppo, in primis Mia Farrow (pare che questi fatti siano all’origine del brano di Lennon Sexy Sadie, del 1968, il cui titolo doveva essere Maharishi!). Ma al di là del gossip, le possibili delusioni patite nel ritiro himalayano non diminuiscono l’interesse del gruppo (chi più chi meno) per le tradizioni indiane, come la loro stessa musica ci ha dimostrato.
20 mesi dopo, i Beatles smettono di esistere. E con loro, l’estate dell’amore, i figli dei fiori, il movimento pacifista, diventano leggenda.
Le realtà degli anni successivi saranno gli altri 35mila giovani americani mandati a morire in Vietnam, saranno i carri armati sovietici a Praga, l’invasione di cocaina ed eroina, le chincaglierie pseudo-spirituali New Age. E nomi come Dear Prudence, Sexi Sadie, Helter Skelter, Piggies, non richiameranno più alla mente le melodie dei Fab Four, ma le follie criminali del “profeta” Charles Manson e della sua Family.

Il 5 febbraio 2008, esattamente 40 anni dopo l’arrivo dei Beatles in India, il loro guru Maharishi Mahesh Yogi muore, in un ex monastero benedettino in Olanda, all’età di 91 – o forse 97 – anni.

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Note

(1) Dal sito Internet www.repubblica.it del 29.09.2008
(2) A proposito del Tibet, è illuminante la lettura del saggio Prigionieri di Shangri-La di Donald S. Lopez Jr. del 1998 (Ed. Ubaldini)
(3) Per la presente relazione è stato utilizzato il volume Orient Pop di L.V. Arena, Ed. Castelvecchi
(4) Vacuità (shunyata) è l’essenza stessa di tutte le cose, per cui ogni fenomeno è privo di esistenza intrinseca, non esiste di per sé (il che non significa che non esista!)
(5) E’ il cosiddetto Libro Tibetano dei Morti, anche se la traduzione corretta è La Grande Liberazione nell’udire del Bardo (= lo stato intermedio tra morte e rinascita) – V. la versione italiana nelle Ed. Ubaldini
(6) L’LSD (dietilamide dell’acido lisergico) è una delle più potenti sostanze allucinogene conosciute, e provoca distorsioni nella percezione della realtà, piuttosto che allucinazioni. Si basa su una sostanza presente in un fungo parassita della segale.
(7) Nella traduzione italiana, pubblicata dall’Ed. Adelphi, il cap. XLVII recita: “senza uscire dalla porta conoscere il mondo! Senza guardare dalla finestra vedere la Via del cielo! Più lontano si va, meno si conosce./Perciò il Santo conosce senza viaggiare, egli nomina le cose senza vederle; egli compie senza azione”
(8) In lingua sanscrita, Jai (o Jaia) è una esclamazione di vittoria, anche in ambito spirituale. Guru Deva è il Divino Maestro, il Guru quale tramite del (e verso il) divino. Om è il mantra supremo, la vibrazione cosmica
(9) Le notizie su Maharishi Mahesh e sulla M.T. sono ricavate soprattutto dal sito Internet del Centro Studi sulle Nuove Religioni, www.cesnur.org. Il viaggio in India dei Fab Four è raccontato con humour da un testimone oculare, il giornalista Lewis Lapham, in I Beatles in India, Ed. e/o.



m. mauro tonko, ottobre 2008

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