martedì 9 ottobre 2012

UNISABAZIA 2006/07 - Kodo Sawaki

Il Risveglio nel quotidiano

Kodo Sawaki, considerato il restauratore dell’autentica pratica dello Zen, nacque nel 1880 nei pressi di Kyoto, città che ospita 1500 templi buddisti e 250 shintoisti, fino al 1869 capitale del Giappone.
Il nome del bambino era Saikichi, Kodo è il nome che gli verrà dato al momento dell’ordinazione a monaco. La famiglia, nella quale viveva con altri tre fratelli, era abbastanza agiata, in quanto il padre era costruttore di risciò. Ma quando aveva quattro anni, Saikichi perse i genitori, i fratelli vennero divisi, ed egli fu allevato da uno zio materno, Sawaki, che viveva giocando d’azzardo in un quartiere malfamato. Il bambino crebbe tra prostitute e malviventi, spesso veniva usato per fare il palo o accompagnare i clienti delle prostitute. Riuscì comunque a studiare fino all’età di 12 anni. Dopo aver sperimentato mujo, l’impermanenza, attraverso la morte dei genitori, una nuova esperienza lo colpì, la morte di un cliente tra le braccia di una prostituta. Vide la moglie disperarsi, e tutta quella sofferenza lo spinse ad allontanarsi da quel mondo perennemente alla ricerca di vuoti effimeri piaceri. Cominciò a frequentare una anziana donna che abitava vicino a lui, e da lei apprese i primi elementi degli insegnamenti buddisti. Conobbe anche un maestro di calligrafia, con cui studiò la storia e la filosofia cinese. Un giorno, Saikichi decise di divenire monaco ed abbandonò la casa dello zio. Si recò al tempio di Eiheiji, fondato da Dogen nel 1244, ma venne mandato via, essendo privo di lettere di presentazione. Ma non se ne andò, restò fuori dal tempio e attese. Dopo due giorni fu visto dal tenzo, il responsabile delle cucine, che lo fece entrare e lo mise al lavoro in cucina. Avendo visto i monaci seduti in zazen, Saikichi volle imitarli e non appena possibile andava a praticare zazen in uno sgabuzzino. Una volta il tenzo lo scoprì, ma senza dir nulla fece gassho [= l’inchino a mani giunte] e uscì.
Kodo Sawaki
 La figura del tenzo è di primaria importanza nello Zen, e non solo per l’ovvio motivo che è il responsabile delle cucine. Infatti l’atto stesso del cucinare – come pure tutte le attività che si svolgono nel monastero, e fuori di esso – se compiuto in unità di mente/corpo, impedisce la formazione di divisioni dualistiche della realtà: non c’è contrapposizione tra le attività quotidiane e la ricerca spirituale. Ciò che conta è l’atteggiamento di consapevolezza, di gratitudine, di rispetto, con cui viene svolta ogni attività. Scrive il M° Dogen nel “Tenzo Kyokun” (“Istruzioni ad un cuoco zen”): “Maneggiate anche una singola foglia di verdura in modo tale che manifesti il corpo del Buddha. Ciò a sua volta permette al Buddha di manifestarsi attraverso la foglia”. E ancora: “Concentrate tutta la vostra attenzione sul lavoro, vedendo solo quel che richiede la situazione. Non siate distratti nelle vostre attività, né tanto assorbiti da un unico aspetto da trascurare gli altri”.
Poiché ad Eiheiji non poteva divenire monaco, si recò ad Amakusa, nel sud, dove dopo due anni l’abate di Shoshinji, Koho Sawada, lo ordinò monaco con il nome di Kodo, all’età di 16 anni. Successivamente, Kodo iniziò a visitare altri monasteri, viaggiando sempre a piedi, vivendo del cibo elemosinato e dormendo dove capitava, spesso all’aperto. All’inizio viaggiava per ricevere insegnamenti dai maestri dello Zen, poi iniziò ad insegnare egli stesso, privo di una dimora stabile. Divenne così Kodo yadonashi, il senza-casa (alla lettera, il randagio). Diceva: “La gente mi chiama Kodo yadonashi, ma non è un insulto. Ognuno è senza casa. È un errore se voi pensate di avere una dimora fissa”.
Si ricordi Lc 9,57-58: Un tale disse a Gesù: «Ti seguirò dovunque tu andrai». Ma Gesù gli rispose: «Le volpi hanno una tana e gli uccelli hanno un nido, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo».
E’ il cuore dello Zen: se lo spirito segue l’ordine cosmico, diventa mushotoku, senza scopo, l’abbandono di sé, dei propri fini, delle strutture mentali che costituiscono la ragnatela per lo sviluppo dell’ego. Non desiderare nulla, sradicare gli attaccamenti, è la condizione della autentica libertà, è l’origine della vera compassione e della vera saggezza. Il dono è non attendersi nulla in cambio. In tal modo Kodo Sawaki iniziò a riportare lo Zen alle sua origini, calandolo nel contempo nella realtà di tutti i giorni del mondo contemporaneo. Infatti all’epoca di Kodo lo Zen, e tutto il buddhismo giapponese, versava in crisi profonda. Nel 1868 con l’ascesa al potere dell’imperatore Meiji lo Shintoismo divenne religione di Stato, ed il buddhismo giapponese per uscire dall’isolamento cominciò ad identificare la legge imperiale con il Dharma, appoggiando la politica nazionalista e militarista del Giappone e giustificando la guerra contro la Cina del 1894-95. Non furono molti, in effetti, i monaci che si opposero alla degenerazione del buddhismo in chiave imperialista e filo-militarista. Di questi, molti vennero arrestati ed alcuni morirono in carcere, e questo fino al 1945, anno della disfatta giapponese nella II guerra mondiale. La maggioranza, invece, condivise l’identificazione tra la Via del Buddha e la via dell’imperatore, teorizzando l’abbandono di sé a favore di una superiore volontà, affermando che per il buddhismo la guerra non è né bene né male, poiché priva di natura propria. Mentre in realtà “per il Buddha il bene è bene, il male male. Questo non solo in base al nostro giudizio che può essere relativo, ma quale espressione del Dharma universale che opera attraverso il karma, legge che a sua volta richiama la necessità dell’agire etico dell’uomo”: se tutto è illusione, anche l’illusione è illusione, e la realtà torna a risplendere con il suo carico di sofferenza e impermanenza [da “Lo Zen di Kodo Sawaki” di Gianpietro Sono Fazion].
All’età di 19 anni, il monaco Kodo Sawaki fu arruolato nell’esercito, ove rimase sei anni, combattendo in Manciuria e Corea nella guerra contro la Russia del 1905. Divenuto sottufficiale, prese l’abitudine di scrivere i nomi dei soldati morti, per avvisare le famiglie. Venne ferito al collo, e gettato nel mucchio dei cadaveri da bruciare. Un uomo si accorse all’ultimo istante che era vivo, fu curato, tornò al fronte e finalmente rientrò nel monastero di Soshinji. Nonostante la sua attiva partecipazione alla guerra, Kodo non aderì mai alle ideologie che l’avevano provocata e sostenuta. In tutti i suoi insegnamenti mostrò come tutte le ideologie vadano viste come fenomeni transitori, fonti di sofferenza per l’umanità: “Se siete veramente concentrati la vostra concentrazione influenza il mondo intero.. Lo zen riguarda noi stessi, al di là dei paesi, delle nazioni, dei secoli e delle epoche.. Lo scopo del buddhismo è solamente la pace: la pace dello spirito e la sua influenza sugli altri. Zazen è il miglior metodo per arrivarci”.
Fu solo molti anni dopo, nel 1992, che la scuola Soto Zen pubblicò una “Dichiarazione di pentimento” per il ruolo svolto durante la guerra, riconoscendo che quelle stesse “azioni che violavano gli insegnamenti del buddhismo venivano compiute in nome del Buddha Sakyamuni.. Non v’è altro da dire a proposito di queste azioni se non che sono state davvero vergognose”.
La vita di Kodo Sawaki fu dopo d’allora dedicata all’insegnamento di uno Zen fondato sullo zazen, lontano da ogni concetto di perdita e guadagno. Parlava spesso nei luoghi pubblici, università, ospedali, carceri. Sempre spostandosi da un luogo all’altro, in totale povertà, era divenuto un vero monastero itinerante. Grazie a lui, moltissimi giapponesi impararono di nuovo a sedere in zazen e a considerare lo zazen il cuore della Via. Il suo insegnamento era molto diretto e semplice, e utilizzava spesso, in modo ironico e compassionevole, osservazioni nate da un contatto continuo con la realtà di tutti i giorni:
- Osservando i cartelloni pubblicitari del cinema, non si vedono altro che volti vibranti di emozioni. L’insegnamento del Buddha è qualcosa di non emozionante, mentre nel mondo si rende sensazionale qualsiasi cosa, anche le inezie.
- Quando due coniugi litigano, nessuno dei due pensa che la lite sia dovuta a una propria idea fissa. Ma durante zazen diventa chiaro che si tratta solo di opinioni sbagliate. La cosa più importante è considerare la vita a partire dallo zazen.
- La vita è complicata. Ci sono momenti in cui, come in guerra, cade fuoco dal cielo, e c’è anche il momento per appisolarsi presso la stufa. Ci sono periodi durante i quali bisogna lavorare anche di notte, mentre in altri si può bere sake. Venire a capo di tale vita attraverso l’insegnamento del Buddha, questo è buddhismo.
- Essere monaco nella vita comune significa vivere nella vita comune senza diventar preda dell’illusione della vita comune. Questa è una buona possibilità.
Nel 1963 Kodo iniziò a star male, si ritirò nel monastero di Antaiji, a Kyoto, dove continuò ad insegnare fino alla morte, il 21 dicembre 1965, a 85 anni. Secondo la sua volontà, il corpo venne donato all’università per lo studio dell’anatomia. In vita e fin dopo la morte testimoniò fino in fondo lo zazen che non serve a nulla, quella stessa postura assunta dal Buddha quale postura del risveglio alla nostra autentica natura. Attraverso gyoji, la pratica continua, aveva esplicato una quotidianità vista come novità della consuetudine: se gli occhi di chi guarda sono perennemente nuovi, tutte le cose di sempre sono costantemente nuove. Un giorno aveva detto: “Gli uomini ammucchiano conoscenze, ma io penso che il fine ultimo sia di poter sentire il suono della valle e guardare il colore della montagna”.

Il potere del kesa
Dainin Katagiri, un maestro Zen, scrisse a proposito di Kodo Sawaki: “Un famoso maestro zen che si chiamava Sawaki Roshi ci insegnava sempre che non dobbiamo far altro che sederci, con la tonaca e la testa rasata.. Sederci, tornare al mondo silenzioso e alla vastità dell’esistenza”.
Secondo il M° Taisen Deshimaru, discepolo di Sawaki e primo missionario dello Zen in Europa, “quando Kodo Sawaki parlava di Shobogenzo [l’opera fondamentale del M° Dogen] cominciava sempre dal capitolo sul kesa, lo considerava più importante del Genjo Koan o del Bendowa”.
Un kesa
Il kesa (dal sanscrito kasaya = color ocra, colore della terra), è la veste del monaco, il simbolo della trasmissione da maestro a discepolo, della vita spirituale.
Dopo il M° Dogen nel XIII sec., grazie a Kodo Sawaki e a Deshimaru, il kesa ha ripreso nello Zen il ruolo centrale che dall’epoca del Buddha ricopriva.
Scrisse Dogen nel cap. “Kesa Kudoku” (“Il merito dell’indossare il kesa”) dello “Shobogenzo”: “Il Buddha Sakyamuni venerò e preservò il kesa incessantemente. Essendo suoi discepoli, dovremmo smettere di adorare sovrani, ministri, divinità e paradisi, e di cercare notorietà e ricchezza, per seguire invece il suo esempio. Questo mondo non può offrire gioia maggiore di quella che deriva dal venerare e rispettare il kesa”. Ed ancora Dogen disse che “il kesa è il cuore dello Zen, il midollo delle sue ossa”.
Il kesa, spiega Dogen, è chiamato l’abito del non-attaccamento: “Una persona che indossi il kesa è liberato dagli effetti del cattivo karma, dell’illusione e del desiderio. Un drago che ottenga anche soltanto un filo di un kesa può liberarsi dai tre generi di sofferenza”.
Si dice che, dopo il Risveglio, il Buddha Sakyamuni prese dei pezzi di vecchi tessuti, li lavò, li tinse del colore della terra e li cucì insieme. Nacque il primo abito dei monaci, che fu trasmesso a Mahakasyapa e poi di Patriarca in Patriarca, fino ad oggi.
Tradizionalmente, il miglior kesa è confezionato con tessuti usati: stoffe rosicchiate dai topi, bruciate nei crematori, abbandonate nei templi, gettate dai ricchi, lasciate sulle tombe...
Cucitura del kesa
Citando Dogen, e riallacciandosi agli insegnamenti di Sawaki, Deshimaru scrive: “Una volta raccolto, lavato e smacchiato, il funzo-e [il kesa di stracci, alla lettera le pezze per pulire gli escrementi] confezionato con queste stoffe diventa il più puro di tutti i kesa.. Tutti i Buddha dei tre mondi hanno tenuto in gran conto e stimato questo kesa e lo hanno sempre indossato”. Più volte, nello stesso testo del M° Dogen, vengono citati i versi del Sutra del Kesa, che i monaci recitano tre volte nel dojo prima di indossarlo, tenendolo ripiegato sul capo:

Dai sai geda puku           Magnifico è questo kesa
Mu so fukuden e            Che conduce a liberazione e felicità di là da ogni forma
Hi bu nyorai kyo             Dobbiamo concentrarci sull’insegnamento del Buddha
Kodo sho shu jo             e fare voto di salvare tutti gli esseri senzienti.
Abiti della tradizione Vajrayana

Secondo la tradizione Zen, indossare il kesa influenza profondamente il corpo e lo spirito, e di conseguenza l’ambiente in cui ci si trova. Portare il kesa permette di riflettere se stessi e di osservare la propria immagine. Così, la postura di zazen diviene forte, e manifesta bellezza e dignità. Sono i dieci meriti del kesa:
- per i sentimenti di pudore che ispira, scioglie i dubbi e rende facile la pratica delle buone azioni
- tiene lontani il freddo e il caldo e gli animali, per cui la pratica di zazen è tranquilla
- determina nel monaco il vero carattere religioso
- è simbolo della Via che libera tutti gli esseri sensibili
- ha il potere di cancellare tutti gli errori e generare la felicità per tutti gli esseri
- per il suo colore, ha il potere di distaccarci dalla bramosia generata dai sensi
- recide le illusioni per lungo tempo
- rende inclini a rispettare i dieci precetti, suggellando l’armonia con il Dharma
- simbolizza per il suo disegno i campi di riso, per cui esprime abbondanza, il nutrimento che è necessario per seguire la Via
- è come una armatura, che le frecce dei desideri non possono attraversare.

Nel testo di Dogen si trovano inoltre, dettagliatamente, gli insegnamenti relativi ai vari tipi di kesa (a cinque bande, chiamato rakusu, a sette, a nove e, per i Maestri, con undici e più bande), le indicazioni sui metodi per lavarlo, asciugarlo, piegarlo e conservarlo in maniera rispettosa, le modalità su come e quando indossarlo ecc. Ma soprattutto, vi si trovano gli insegnamenti, oggi ripresi da Sawaki e Deshimaru, per confezionarlo secondo i canoni della tradizione. Diceva Dogen: “Per quel che vi è possibile, cucite di questi kesa; allora voi praticherete la più grande virtù di purezza”.
Ai giorni nostri, gli insegnamenti sul kesa sono esposti e commentati dal M° Deshimaru nel “Libro del Kesa”. Qui, egli invita i praticanti a cucire a mano da se stessi il kesa, seguendo le regole esatte, usando un punto particolare chiamato kaeshi bari (o punto indietro), e soprattutto con la stessa concentrazione che lo spirito ha durante zazen, punto dopo punto, come lo zazen è praticato respiro dopo respiro, e la meditazione camminata, kin hin, avviene passo dopo passo, in unità di corpo e mente nel qui ed ora.
Così, per Dogen e per tutti i praticanti Zen, il kesa di stracci diviene “il vero kesa. Non lo si definisce così per la qualità della stoffa – sia fatto di seta, di cotone, con filo d’oro o d’argento, che abbia dei ricami o delle incrostazioni poco importa – ma lo si definisce per la concentrazione con la quale lo si indossa o per la vita pura che lo ha animato e che gli ha dato forma durante il confezionamento”.
Abiti della tradizione Theravada
Scrisse Yoka Gengaku:

La nebbie d’inverno e d’autunno,
la rugiada, le nubi,
le piogge di primavera,
sono l’autentico kesa che riveste il mio corpo.




Testi citati:
Gianpietro Sono Fazion, “Lo Zen di Kodo Sawaki”, Ed. Ubaldini
Gianpietro Sono Fazion, “Vita di Kodo Sawaki, monaco Zen”, Ed. La Spiga
Dogen Zenji, “Shobogenzo”, Ed. Pisani
Taisen Deshimaru, “Il libro del kesa”, a cura del Dojo Zen Mokusho di Torino
Bovay-Kaltenbach-De Smedt, “Zen”, Ed. Albin Michel (in francese).


m. Mauro Ton Ko, novembre 2006

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