giovedì 18 ottobre 2012

UNISABAZIA 2009/10 - Il Buddha prima del Buddha

I Jātakamālā di Ārya Śūra

Nel Maha Saccaka Sutta (Il discorso maggiore a Saccako) il Buddha narra al giovane Saccako la propria esperienza sotto l’albero del Bodhi. Quando giunge a parlare del quarto livello della meditazione, afferma: “Diressi il mio spirito alla contemplazione delle mie vite anteriori: una nascita, due nascite, tre nascite, quattro.. cinque.. dieci.. venti.. trenta.. quaranta.. cinquanta.. cento.. mille.. cinquemila nascite, dieci epoche di riproduzione del mondo, dieci epoche di distruzione del mondo, dieci epoche di distruzione e riproduzione del mondo. Tutto ricordai con precisione: in un certo luogo mi trovavo, avevo un certo nome, appartenevo ad una certa stirpe e a una certa famiglia, un mestiere esercitavo; provai gioia e dolore, e così terminai la mia esistenza, per nascere di nuovo in un’altra vita… Così richiamai alla mia memoria un gran numero delle mie vite anteriori, contemplando ciascuna di esse in tutti i suoi caratteri e fin nei suoi più piccoli dettagli” (1).

Come è noto, Siddhartha Gautama, il futuro Buddha, nacque, si formò, elaborò il proprio insegnamento, all’interno di un contesto culturale (l’India del VI sec. p.e.v.) per il quale la dottrina della rinascita era un dato di fatto (quasi) universalmente accettato.
Ma la reincarnazione presuppone l’esistenza di un “sé” individuale e permanente (atman) che passa da un corpo all’altro, vita dopo vita. Tale idea venne però nettamente rifiutata dal Buddha, per il quale il “sé” esiste solo in dipendenza dei cinque aggregati (corpo, sensazioni, percezioni, volizioni, coscienza), che a loro volta sono fenomeni composti, impermanenti, soggetti a distruzione. Per il buddhismo, “non esiste anima immortale e [..] tutto il mondo fenomenico compare e scompare in un flusso perennemente mutevole” (2).
Il buddhismo accetta però la realtà del processo di rinascita, negando nel contempo che esso sia sostenuto da una sostanza soggiacente (l’atman, un’anima immortale). E’ come una fiamma, si dice, che è trasmessa da una fonte (es. una torcia) ad un’altra: la fiamma non è identica alla fonte, ma non ne è nemmeno totalmente differente. Nello stesso modo, l’eredità karmica delle azioni passate origina formazioni psicofisiche sempre nuove. “Non è quindi la stessa ‘persona’ a fare ritorno” (3), bensì un “continuum”, un flusso di coscienza, privo di sostanza autonoma, una serie di istanti psichici collegati tra loro da rapporti causali, in continuo e ininterrotto divenire, e privo altresì di una origine, di una “causa prima”, in quanto ogni istante è causato da un istante precedente, in una catena senza inizio.
Senza addentrarsi in una peraltro inutile disamina delle ipotesi avanzate dalla varie scuole buddhiste, relativamente alla natura di ciò che fa da supporto alla catena della rinascite, in assenza di un “sé” permanente ed indipendente, è un fatto che la credenza nella reincarnazione “a livello popolare [..] è un dato acquisito in modo talmente profondo da essere pressoché inamovibile” (4).
Su questo terreno di cultura “popolare”, cioè all’interno delle modalità con cui veniva (viene) tradizionalmente interpretata e vissuta la dottrina del karma (cioè delle relazioni tra causa ed effetto), si innesta la concezione secondo la quale la natura di Buddha, del Risveglio, è sì presente in tutti gli esseri, ma la sua piena manifestazione è il risultato di una progressiva evoluzione spirituale, che si compie attraverso la pratica delle sei paramita (le “perfezioni”): la generosità, l’etica (evitare di fare il male, praticare il bene, fare il bene degli esseri senzienti), la pazienza, l’energia, la concentrazione, la saggezza. E dei quattro brahma vihara (le quattro “dimore di Brahma”), i quattro “incommensurabili”: l’equanimità, l’amore, la compassione, la gioia compartecipe.
Il combinato delle concezioni di un processo nascita-morte-rinascita e di una evoluzione spirituale verso la piena realizzazione del Risveglio attraverso un “accumulo” dei meriti di azioni virtuose, diede origine all’interno delle comunità del buddhismo indiano ad un vero e proprio “genere” letterario, centrato sulla figura del Bodhisattva (5), cioè colui che diverrà, vita dopo vita, il Buddha dell’era presente, Siddhartha Sakyamuni. Sono i Jataka (le “nascite”), ovvero le narrazioni delle grandi gesta (esclusivamente in senso etico) compiute dal Buddha nelle sue vite precedenti, sotto forme non solo umane, ma anche divine e animali.
I racconti dei Jataka provengono quindi direttamente dalla bocca del Buddha, sono i ricordi delle sue esistenze precedenti da lui stesso raccontate ai discepoli. Ed infatti i 547 racconti dei Jataka fanno parte integrante del Canone Pali. Benchè la raccolta sia stata redatta nel V sec. e.v., gli episodi che la costituiscono risalgono ad epoche precedenti, probabilmente al periodo della vita del Buddha storico (VI sec. p.e.v.).
I Jataka, come si è detto, non sono esposizioni sistematiche degli insegnamenti del Buddha, come i Sutra, e non contengono dissertazioni filosofiche. Sono invece racconti semplici, di facile lettura, con una forte valenza di edificazione, di insegnamento etico; sono volti ad infondere negli ascoltatori e nei lettori sentimenti di devozione e di fiducia nel valore del compimento del bene in vista della liberazione finale. I Jataka infatti “racchiudono una psicologia e un sistema etico raffinati, basati sulle intuizioni del Buddha riguardo alle leggi naturali che governano tutto l’esistente. [..] Sono una efficacissima rappresentazione del funzionamento del karma, così come esso si dispiega nell’arco di vite successive” (6).
Il Buddha insegna che il karma “non si dispiega in una semplice progressione lineare” (7) di causa ð effetto; è difficile rintracciare l’evolversi del karma nella vita di tutti i giorni (propria ed altrui), vedere le connessioni tra le azioni di corpo, parola e mente ed i loro effetti. Si può perfino giungere a pensare che tale relazione nemmeno esista, credendo nell’idea che le azioni non abbiano conseguenze morali o psicologiche. Oppure, mal comprendendo il karma, si può cadere nell’estremo opposto, per cui tutte le azioni sarebbero predeterminate (dal destino, dai condizionamenti sociali, ambientali, biologici), negando ogni possibile libertà all’agire umano. In entrambi i casi, non avremmo nessun controllo sulla vita, nessuna responsabilità etica. E questa forma di ignoranza darebbe origine – come in effetti accade – a nuove sofferenze.
La lettura dei Jataka era – ed è tuttora – una occasione per riflettere sulle scelte morali, aprire gli occhi alla realtà del karma, ripensare ad una autentica qualità della vita, capire le conseguenze delle azioni umane, liberare la mente da schemi distruttivi di comportamento consolidati nel tempo e divenuti veri e propri automatismi (8).
Per questi motivi i Jataka ebbero da subito una grandissima diffusione in tutti i territori dell’Asia in cui si irradiò il buddhismo, influenzando profondamente anche le letterature locali. Addirittura in molte zone nacquero altre storie, che si aggiunsero alle raccolte originarie provenienti dall’India attraverso il Tibet o la Cina.
A partire dai Jataka, vennero composte opere poetiche e si allestirono rappresentazioni sceniche, sia per edificazione delle persone, sia per puro senso estetico, ed anche per alleviare la sofferenza durante le veglie funebri. Tradizioni tuttora vive in molte aree dell’Asia.

Una delle grotte di Ajanta

Inoltre, scene ed episodi tratti dai Jataka vennero scolpiti o dipinti sui monumenti e nei siti buddhisti, ad es. in India (le grotte di Ajanta, i reliquiari di Sanci, Amaravati ecc.), a Giava (il famoso Borobudur), in Birmania.
Anche le letterature non buddhiste ne furono influenzate: diverse opere composte successivamente nella tradizione hindu si fondarono sui Jataka o ne riportarono alcuni. Basti ricordare il Pancha-tantra, un’opera in cinque sezioni (pancha = cinque, tantra = capitoli) attribuita a Vishnusharman, redatta nel V sec. e.v. perché servisse all’educazione dei figli del re Amarashakti (i Jataka erano invece destinati a tutta la popolazione). Si tratta di una raccolta di fiabe, che a sua volta divenne la base delle narrazioni favolistiche medio-orientali, e che influenzò anche le letterature del Medio Evo europeo. Ai Jataka (attraverso il “filtro” del Pancha-tantra tradotto in arabo, siriano, persiano) attinsero scrittori come Boccaccio, Ariosto, Matteo Bandello, La Fontaine, Chaucer.

Il Borobudur
Tra le diverse raccolte di Jataka pubblicate nel tempo, autonomamente dal Canone Pali, riveste particolare importanza quella attribuita ad un grande poeta indiano, Ārya Śūra, vissuto nel III – IV sec. e.v., di cui non si sa quasi nulla. Alcuni lo identificano con Asvaghosa, l’autore del Buddhacarita (“Le gesta del Buddha”), ma pare un’ipotesi non sostenibile. Ārya Śūra compose una raccolta di 34 Jataka, conosciuta come Jātakamālā, la “Ghirlanda delle nascite” (mala = rosario, ghirlanda, corona). Egli non fu un semplice compilatore, infatti rielaborò le storie scelte in uno stile estremamente raffinato che fece di lui uno dei maggiori scrittori indiani, e del suo Jātakamālā una delle opere più importanti e più amate di tutta la letteratura sanscrita.

Infine, una vicenda curiosa: a proposito delle “infiltrazioni” dei Jataka in Occidente, può essere interessante ricordare come lo stesso Bodhisattva, “eroe” dei Jataka, sia stato assorbito “in incognito” nelle tradizioni letterarie cristiane.
I Santi Barlaam e Joasaf
Infatti la storia della vita di Siddhartha Sakyamuni, ultima reincarnazione del Bodhisattva, oggetto dell’ultimo Jataka, il 547°, viaggiando da Oriente verso Occidente lungo le vie delle carovaniere, fu conosciuta dagli zoroastriani, dai manichei, infine dai cristiani. Fu tradotta in iranico, in siriaco, in arabo, in greco, in latino, infine nelle lingue volgari dell’Europa cristiana. Il nome del Bodhisattva divenne, nel passaggio da una lingua all’altra, Budasaf, poi Joasaf, o anche Josafat, forse per assonanza con l’ebraico Jehoshaphat (= “il Signore giudica”), conosciuto in italiano come Giosafatte.
Il racconto della vita di Joasaf, principe indiano che si converte al Cristianesimo, fu attribuito a San Giovanni Damasceno, padre della Chiesa (676/749). Poi venne narrata anche dal Beato Jacopo da Varagine, arcivescovo di Genova (1228/1298) nella sua “Leggenda Aurea”, ed ebbe infine grande diffusione nell’ambito del Cristianesimo ortodosso e nella mistica dell’Europa Orientale.
Infine, il nome di Joasaf, insieme a quello di Barlaam, il santo eremita che ne favorisce la conversione - in realtà un “doppio” del Buddha stesso - fu inserito nel Martirologio Romano (il 27 novembre), nel quale peraltro oggi non compaiono più. E fu così che il Buddha divenne, almeno per qualche secolo, un santo cristiano!


NOTE
1. Dal Maha Saccaka Sutta, Majjhima Nikaya 36, cit. in V. Cucchi (a cura di) La vita di Buddha nei testi del Canone Pali, Ed. Xenia pag. 48
2. V. voce Karman in: M. Eliade (a cura di), Enciclopedia delle Religioni, Ed. Jaca Book, vol. 10 – Buddhismo, pag. 318
3. P. Cornu, Dizionario del buddhismo, Ed. Bruno Mondadori, pag. 685
4. M. Yushin Marassi, Il Buddhismo Mahayana attraverso i luoghi, i tempi e le culture, vol. II, Ed. Marietti, pag. 394
5. Alla lettera “Essere la cui essenza è il Risveglio”; colui che rinuncia al Nirvana per aiutare gli altri esseri ad ottenerlo
6. Introduzione a: Arya Sura, Le vite passate del Buddha – Jatakamala, Ed. Ubaldini, pag. 9
7. Idem
8. Cfr. idem, pagg. 10-11

Oltre ai testi citati nelle note sono stati consultati ed utilizzati:

- il foglio esplicativo curato da F. Sferra allegato a: Ārya Śūra, La Ghirlanda delle nascite, Ed. Fabbri
- l’articolo I Jataka: una visione delle Storie del Buddismo tratto dal sito Internet
  http://www.exoticindia.com e pubblicato nel sito www.centronirvana.it/i_jataka.htm
- le voci: Barlaam e Iosafat, Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, nel sito http://it.wikipedia.org
- S. Ronchey, Note sulla fiaba di Barlaam e Joasaf, in: Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, Ed. Rusconi
- Jacopo da Varagine, Leggenda Aurea, Libreria Editrice Fiorentina

m. Mauro Ton Ko, 2009

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