giovedì 8 novembre 2012

UNISABAZIA 2011/12 - Kali la Nera Amata

Kali, la Nera Amata

Diverse sono le vie che conducono al Tempio di Madre Kali di Kalighat in Calcutta.
Similmente, diverse sono le vie che conducono gli uomini alla casa del Signore.
Ogni religione è nient’altro che una di queste vie.


(Ramakrishna)


Nel mezzo della pagoda si elevava una grande statua di bronzo, rappresentante una donna con quattro braccia, di cui una brandiva una lunga daga e un’altra una testa. Una grande collana di teschi le scendeva fino al collo dei piedi e una cintura di mani e di braccia mozzate le stringeva i fianchi.
La faccia di quell’orribile donna era tatuata, le sue orecchie erano adorne di anelli; la lingua dipinta di rosso cupo, del color del sangue, le usciva d’un buon palmo dalle labbra atteggiate a un feroce sorriso; i polsi erano stretti da larghi braccialetti e i piedi posavano su di un gigante coperto di ferite.
Quella divinità, lo si capiva a prima vista, trasportata dalla ebbrezza del sangue, danzava sul corpo della vittima. [..] Tremal-Naik non aveva mai visto nulla di simile
”.
Ciò che Emilio Salgari descriveva nel suo romanzo “I misteri della Jungla Nera” (1895), senza mai aver lasciato le città ove trascorse la sua esistenza (Verona, Genova, Torino), era una statua della Dea Kali (1). Senza dubbio, tra le divinità del pantheon indiano, una delle più amate e venerate. Inoltre, Kali è forse la più presente nell’immaginario occidentale sull’India, grazie alla letteratura e al cinema (2), ma anche la meno conosciuta nei suoi reali aspetti simbolici.

Si è detto come per le tradizioni indiane (ma non solo) il fine ultimo di un percorso spirituale (quali ad es. lo Yoga, il Vedanta, il Samkya..) sia la Conoscenza/Identità con l’Assoluto, Dio, il brahman, il che comporta la liberazione dalla sofferenza dell’esistenza ciclica; altrimenti detto: la ri-unificazione degli opposti, il principio maschile ed il principio femminile, Shiva e la sua Shakti (3), la sua compagna, personificazione dell’originaria manifestazione dell’Uno nel Due. Tutto questo è ben rappresentato (come accennato nel corso degli incontri precedenti) dall’unione delle nadi Ida e Pingala, i canali lungo cui scorrono le energie sottili del corpo, nel canale centrale, Sushumna Nadi, nel centro energetico superiore, il Sahasrara Chakra.
Si è visto inoltre come nella cultura hindu la stessa persona (divina) possa manifestarsi secondo modalità diverse, assumendo forme e nomi differenti che possono divenire divinità “autonome”, sempre però riconducibili ad una originaria unità. Così, la Dea Padma è anche Sri, e Lakshmi.
Ugualmente, la Shakti di Shiva ha molti nomi e forme: è Parvati, Durga, Uma, Chandi, Sati (4), Bhavani, Chamunda. E, ciò che qui interessa, è Kali.
Kali
Parlando di Ganga e di Padma, è stato facilmente sottolineato il principio materno che le figure femminili rappresentano, il loro essere origine e sostentamento della vita. Ma tale aspetto creatore necessita per legge di natura di essere controbilanciato da un aspetto distruttore. L’Energia ha anche una “funzione perennemente distruttiva che si riprende e di nuovo inghiotte le creature che ha generato” (Zimmer).
La Shakti di Shiva si presenta in effetti sotto aspetti diversi, in apparenza contraddittori, ma in realtà tra loro complementari. Come Kali, ella si manifesta come una donna nuda, con lunghi capelli sciolti, una grande lingua fuori dalla bocca, una collana di crani umani, e brandisce un coltello insanguinato e una testa umana appena staccata. Una dea guerriera, quindi, una figura estremamente ricca di energia, in particolare quell’aspetto dell’energia legato alla dissoluzione, alla distruzione (non in senso negativo: la distruzione non è il male, contrapposto ad un bene identificato con la creazione, è uno degli aspetti della manifestazione, dell’esistenza). Una icona apparentemente inquietante, spaventosa, facilmente assimilabile ad una entità malvagia, ad un demone (come fece Salgari), se non si conosce il suo reale significato.
Infatti, secondo il mito, Kali si manifestò allorquando le forme “demoniache” maschili (gli asura [5]) stavano dominando e opprimendo il mondo dei Deva (gli dei) e degli uomini. È l’eterna lotta non tanto tra il bene e il male, quanto tra la conoscenza autentica (vidya), e l’ignoranza (avidya), ovvero quella forma di conoscenza che, guidata dall’ego, mira solo al dominio sul mondo, portando squilibrio e sofferenza.
Durga
Gli dei erano stati sconfitti, messi in fuga, umiliati. Concentrando le loro residue energie, le proiettarono come torrenti di fuoco, da cui emerse Durga (= l’irraggiungibile), personificazione femminile delle energie della natura legate alle montagne e al fuoco, la Dea-Madre degli yogi, compagna di Shiva, che dello Yoga è il Signore. Durga attaccò da sola gli asura, e durante la lotta fece uscire dalla sua fronte il suo aspetto più terrifico, più “forte”, ovvero Kali, dea guerriera per eccellenza, che si gettò nella mischia. Durante la lotta conto il gigante Raktavija, Kali riuscì a ferirlo più volte, ma da ogni goccia del suo sangue sorgevano altri mille giganti. Allora Kali emanò da sé Chandi, uno dei suoi aspetti, la quale continuò a combattere mentre Kali bevve tutto il sangue (simbolo dell’energia vitale maschile, che Kali assorbe annullandone gli aspetti distruttivi). Raktavija rimase solo, e fu ucciso da Chandi. Un ultimo asura venne infine sconfitto da Durga, dopo che ebbe riassorbito in sé le sue molteplici forme. Alla fine, ristabilita la pace e l’equilibrio nel mondo, Durga ricevette gli omaggi degli dei e scomparve: dal Molteplice all’Uno, dall’Uno al Non-manifesto.
Si noti per prima cosa che, per riuscire a vincere gli asura, gli dei fecero ricorso ad una figura femminile e alle sue emanazioni, ugualmente femminili. Il che rimanda ancora una volta alla Dea-Madre che aveva preceduto, nelle società matriarcali, le divinità maschili poi predominanti nelle successive strutture sociali patriarcali. Ma il predominio maschile non cancellò del tutto il ruolo dell’elemento femminile, sia nei miti e nei simboli religiosi, sia nella pratica spirituale. Questo è particolarmente evidente soprattutto nella tradizione del Tantra (6), che esercitò una profonda influenza nell’induismo (es. lo Hatha Yoga) e nel buddhismo (Vajrayana, Shingon).
Ugualmente significativi e complessi sono i simboli racchiusi nelle tradizionali rappresentazioni iconografiche di Kali. Il suo nome è legato al colore nero, ed è anche la forma femminile del Tempo (kala), il grande divoratore di ogni cosa.
Secondo Swami Siddheshvarananda i capelli sciolti di Kali rappresentano il Tempio, a cui i fedeli accorrono. I crani umani che le ornano il collo sono il principio di causalità, ma anche la conoscenza, la saggezza: infatti sono in numero di 50, come le lettere dell’alfabeto sanscrito. Il pugnale (o la spada) rappresenta invece tutti gli orrori della vita, ma anche la distruzione delle forme e quindi la liberazione dell’uomo dalla schiavitù nei confronti delle forme stesse.
La testa mozzata indica invece il fatto che la Dea trasforma costantemente la personalità dei suoi devoti, consentendo loro il passaggio a stadi più elevati nell’evoluzione spirituale.
Kali è spesso raffigurata con il corpo di colore nero (Dakshinakali). È detto in un testo tantrico: “Come tutti i colori scompaiono nel nero, così tutti i nomi e le forme scompaiono in lei” (7). E, come Kali Nera, è ritta in piedi (oppure seduta, in unione sessuale) sopra un corpo, quello di Shiva-Shava (shava = cadavere). È l’unione amorosa dei due princìpi, il maschile e il femminile, il Due-in-Uno. Qui, Shiva è cadavere, ovvero è l’immobilità in quanto dinamicità potenziale, ciò che precede la manifestazione, il movimento. In genere, nel simbolismo indiano (contrariamente a quello occidentale) l’elemento maschile è passività, immobilità. Laddove la passività indica la potenzialità, lo stato latente dell’energia, il non-ancora-manifesto. Il femminile è invece attività, l’energia che si rende manifesta. I due elementi sono quindi necessariamente opposti e complementari.
Il colore nero del corpo rimanda a tamas, uno dei guna (categorie, qualità) della sostanza, quello legato alla forza centrifuga che conduce alla disgregazione.
Il bianco dei suoi denti è la qualità opposta, sattva, che determina la luminosità, la conoscenza, i sentimenti.
Il rosso della lingua è rajas, principio dell’attività, senza il quale né sattva né tamas possono esercitare alcuna funzione.
Kali è sempre nuda, ovvero è libera dal velo dell’illusione (maya): essa è la Natura stessa priva di ogni nascondimento, è la realtà così com’è.
I suoi seni sono il simbolo del suo essere generatrice di vita, che ella crea senza necessità di unione con l’elemento maschile, già racchiuso in lei.
È cinta da una fascia fatta di braccia e mani. La mano è il principale strumento umano, e qui rappresenta il karma, le azioni compiute nel passato dagli uomini con corpo, parola e mente, e i loro effetti sugli autori delle azioni stesse, che si manifestano nella vita presente o in quelle future.
Ha 2, 4, 6 o 8 mani, con le quali regge una testa mozzata (l’annientamento dell’ego), una spada (la distruzione delle forme), un laccio (la caducità di tutte le forme), oppure compie gesti di protezione o di invito alla pratica spirituale. Impugna altresì un tridente, che si trova anche nella iconografia di Shiva, e che, oltre ad essere un’arma, ha diversi significati simbolici: la supremazia sul tempo (le 3 punte, presente, passato e futuro); ovvero i 3 momenti dell’azione divina: creazione, conservazione, distruzione; o ancora le 3 tendenze, aggregazione, equilibrio, disintegrazione. Più in generale, le armi che impugna simboleggiano il suo potere di distruzione, che è anche, si ricordi, distruzione degli ostacoli che impediscono la liberazione dal ciclo delle rinascite e della sofferenza umana. Può anche reggere delle forbici (che tagliano il filo della vita), una coppa piena di cibo, un fiore di loto, simbolo di rigenerazione spirituale.
Talvolta la sua pelle è bianca, allora è la Vergine Creatrice. Oppure rossa, ed è la Madre Sostentatrice.
Kali è pertanto immagine della nascita e della morte, sua naturale e necessaria controparte, che si alternano e si completano vicendevolmente in un flusso continuo di cicli di origine e di cessazione. È Inizio di Ogni Cosa e, dopo la dissoluzione dell’Universo, è Natura Non-Manifesta, pura potenzialità, Eterno Femminile origine di ogni futuro Universo.
Ella è, dal punto di vista mistico, la suprema realizzazione della verità, lo stato al di là della manifestazione, e quindi la liberazione suprema (moksha).
A Kali è consacrata una delle più grandi città indiane, Calcutta (Kolkata), il cui stesso nome significa “luogo di Kali” (Kalikshetra).
Ramakrishna
E lì, nel tempio a lei dedicato, Kali apparve ad uno dei più grandi mistici dell’Induismo, Ramakrishna, molto conosciuto anche in Occidente (8). Quando prestava servizio nel tempio di Kali, della quale fu sempre un fervente devoto, egli fece voto di uccidersi, se la sua amata dea non gli fosse apparsa. E dal momento in cui Kali gli si manifestò, egli percepì ogni cosa, anche il più piccolo essere, il più insignificante oggetto, come pura Coscienza, in totale comunione con la divinità. “Tutto dentro alla stanza – scrisse Ramakrishna – era imbevuto di [..] Essere-Coscienza-Beatitudine. Di fronte al tempio vidi un uomo malvagio, ma anche in lui vidi vibrare il potere della Madre Divina [..]. Percepivo con assoluta chiarezza che la stessa Madre Divina era diventata ogni cosa”.
Come si è detto, il nome di Kali rimanda al colore nero, al Tempo (al femminile), ed è anche il termine che, nel gioco dei dadi, designa il colpo perdente (1 punto), in seguito personificato come spirito del tempo distruttore.
Tutti questi aspetti di Kali ci consentono, vedremo in qual modo, di accostarci alla visione del tempo secondo la tradizione indiana, un tempo ciclico, non lineare, in cui ogni cosa, compresi gli dei e l’intero universo, nasce, esiste, muore e rinasce, in cicli cosmici senza inizio e senza fine.
Secondo i miti hindu, ogni ciclo del mondo si divide in 4 età (yuga), che prendono i loro nomi dai quattro colpi del gioco dei dadi: Krita (4 punti), Treta (3 p.), Dvapara (2 p.), Kali (1 p.), e che si susseguono nell’ordine sopra descritto.
I quattro Yuga
Il Krita Yuga corrisponde al colpo vincente, quello che guadagna tutta la posta in gioco. È, secondo la terminologia della tradizione greco-romana, l’età dell’Oro (9): ogni cosa è completa in se stessa; l’ordine (Dharma) morale e quello sociale si regge sulle 4 zampe (spesso è raffigurato come una vacca), ed è quindi del tutto stabile; uomini e donne sono virtuosi, e vivono a lungo e in salute; la società è in perfetto equilibrio nelle sue componenti. Il Krita Yuga dura 1.728 mila anni.
Al suo termine, inizia il Treta Yuga, e con esso un periodo di progressiva decadenza. Tutto si regge su ¾ del Dharma, l’adempimento dei doveri etici, religiosi, sociali, familiari, non è più spontaneo, deve essere appreso. La durata di questo yuga è di 1.296 mila anni.
Il decadimento continua, e si approfondisce, con il Dvapara Yuga, un’era di instabile equilibrio tra perfezione e imperfezione, tra luce ed oscurità. L’ordine universale si regge su due sole zampe, gli esseri umani divengono avidi, avari, attaccati ai beni materiali. Tutto questo per 864 mila anni, la metà del primo yuga.
Infine, il Kali Yuga, l’età oscura. Nel mondo c’è solo egoismo, violenza, guerre, dolore. Il materialismo regna sovrano, il sacro scompare. È detto nei Visnu Purana: “Quando la società raggiunge uno stadio in cui la proprietà determina il rango, la ricchezza diviene l’unica fonte di virtù, la passione il solo legame che unisce marito e moglie, la falsità la fonte del successo nella vita, il sesso l’unico mezzo per ottenere godimento”, allora siamo nel Kali Yuga. Che è infatti l’età attuale, iniziata venerdì 18 febbraio 3102 a.C., con la morte del corpo fisico del dio Krishna. La sua durata è di 432 mila anni, ¼ del Krita Yuga. Terminerà quindi tra 426.887 anni, ed in questo lasso di tempo ogni aspetto dell’esistenza andrà volgendo al peggio.
Il totale dei 4 yuga è dunque di 4.320 mila anni. Tale periodo è detto Mahayuga (maha = grande).
Mille mahayuga (ovvero 4.320 milioni di anni umani) corrispondono ad un giorno di vita del dio Brahma, il creatore. La notte è di eguale durata.
Un giorno di Brahma (detto kalpa) inizia con l’emanazione di un universo, e termina con la dissoluzione e il riassorbimento dello stesso in Lui. Durante la notte, tutto sussiste come seme, come potenzialità della manifestazione che avverrà con il nuovo giorno, allorquando Brahma riemerge sul fiore di loto sbocciato dall’ombelico di Visnu dormiente sulle spire del serpente Ananta.
Ma anche Brahma è soggetto al ciclo di manifestazione e dissolvimento: la sua vita dura infatti 100 anni, fatti di giorni e notti di Brahma, ed è quindi pari a 311.040 miliardi di anni umani (4.320 milioni [1 mahayuga] x 2 [dì + notte] x 365 x 100 anni).
La vita di un Brahma termina con una totale dissoluzione, nella quale svaniscono tutti gli stati dell’essere, fino a quelli più alti, più sottili. Nei 100 anni (di Brahma) successivi domina uno stato di assoluto riassorbimento, dopodiché l’intero ciclo ricomincia da capo, e ancora, e ancora….

Note


1) La corretta pronuncia è Kàli, e non Kalì, come si sente spesso dire.
2) Si ricordino I misteri della giungla nera (1953, 1965), Kali Yug la dea della Vendetta (1963), Indiana Jones e il tempio maledetto (1984). Vanno anche citati romanzi come Il giro del mondo in 80 giorni di J. Verne e L’uomo difforme di A. Conan Doyle, nonché il celebre ciclo televisivo RAI dedicato a Sandokan, nei quali sono presenti i thug, adoratori di Kali.
3) Ciò vale soprattutto per la tradizione shivaita. La Shakti è qui la personificazione dell’energia cosmica, rappresentata come femminile e attiva, in opposizione alla personificazione maschile, Shiva, vista come passività, come latenza, potenzialità dell’energia stessa.
4) Sati, personificazione della Natura divina, si immolò bruciando dall’interno grazie ai suoi poteri yogici, per rabbia contro il padre Daksha, che riteneva disonorevole per la famiglia il matrimonio della figlia con Shiva. Sati è anche il nome della pratica secondo cui le vedove si immolavano vive sulla pira funeraria del consorte. Il rito era percepito come un atto di devozione verso il marito e solo le donne virtuose erano in grado di compierlo. La pratica di sati venne proibita dagli Inglesi nel 1829.
5) In epoca pre-vedica il termine asura significava “Essere Spirituale” ed era associato anche agli dei (Deva). Più tardi divenne sinonimo di demone, nemico dei Deva. Il rapporto Deva/Asura non può essere comunque paragonabile a quello Dio/Diavolo come inteso in ambito giudaico-cristiano.
6) Il culto tantrico (che si ritrova anche nel buddhismo) ha come fine l’ottenimento della “potenza” derivante dall’unione dell’energia maschile e femminile, per raggiungere la liberazione, l’illuminazione. Si è sviluppato nel III sec. d.C. (periodo Gupta), ma è un prolungamento di tradizioni yogiche pre-vediche, quindi molto più antiche. Il termine Tantra, che indica anche le raccolte degli insegnamenti delle relative scuole, significa “trama e ordito, i fili intessuti su un telaio”.
7) Nel mondo cristiano, il culto della Madonna Nera è diffuso ovunque (Oropa,
Częstochowa, Tindari, Montserrat, Tenerife, Sud America…), ed è più che probabile il suo legame con il culto originario della Dea-Madre (il colore scuro è il colore della terra fertile) e successivamente con il culto egizio di Iside, con quello greco-romano di Demetra/Cerere, forse anche con quello indiano di Kali.
8) Sri Ramakrishna (1834-1886), per nulla un erudito, fu uno dei più grandi santi mistici dell’India moderna. Dopo aver provato profonde esperienze mistiche quale devoto della Dea Madre, praticò secondo gli insegnamenti delle varie scuole induiste, come pure secondo le dottrine buddhiste, jainiste, islamiche e cristiane, raggiungendo ogni volta le esperienze estatiche relative alle varie tradizioni.
9) Le altre sono le età dell’Argento, del Bronzo e del Ferro (l’attuale).

Testi consultati

Salgari, I misteri della Jungla Nera, Ed. Einaudi
Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini
Zimmer, Miti e simboli dell’India, Ed. Adelphi
Herbert, L’Induismo vivente, Ed. Mediterranee
Morretta, Miti indiani, Ed. Longanesi
Acharuparambil, Spiritualità e mistica indù, Ed. Città Nuova
Mookerjee, Kali la Dea della forza femminile, Ed. RED


m. Mauro Ton Ko, novembre 2011

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