giovedì 30 maggio 2013

Il Sutra della Piattaforma (ma senza la Maersk...)

Uno dei principali testi di riferimento delle scuole Ch’an-Zen è il “Sutra esposto dal Sesto Patriarca sull’Alto Trono del Tesoro della Legge”, che riporta gli insegnamenti del maestro cinese Hui Neng (Wei-lang nel dialetto meridionale, Eno in giapponese), il quale visse dal 638 al 713 d.C. ed è appunto il sesto dei patriarchi cinesi dello zen (il primo fu Bodhidharma, ultimo dei patriarchi indiani e primo di quelli cinesi).
L’opera, unico testo cinese contenuto nel Canone buddhista (Tripitaka) con il titolo di “sutra”, è nota come “Sutra della piattaforma”, o “Sutra del gradino”.
In Italia è stata pubblicata nel 1977 dalle Edizioni Ubaldini con il titolo “Il Sutra di Hui Neng”, ma nel 1968 era uscito un altro volume ad esso dedicato, con un titolo tanto famoso quanto discutibile, “La dottrina zen del vuoto mentale”, laddove “vuoto mentale” traduce impropriamente la forma inglese “no-mind”. Ne era autore Daisetz Teitaro Suzuki (da non confondere con il maestro zen Shunryu Suzuki), noto – e discusso – divulgatore in Occidente del buddhismo Mahayana e in particolare dello zen (1870-1966).

Daisetz Teitaro Suzuki
Qui pubblichiamo il testo tradotto di due kusen (insegnamenti verbali) che il maestro Roland Yuno Rech nel 1999 ha dedicato al maestro Eno, nei quali viene narrata e commentata a partire dalla pratica di zazen la vicenda che fece di lui il successore del quinto patriarca, Konin.
Hui Neng (Eno)

"Il poema di Jinshu

Un giorno il Maestro Konin disse ai suoi discepoli: “Per l’essere umano, il problema più importante è che è nato e che morirà. Voi vi perdete nella ricerca della felicità. In che modo tutto questo potrebbe salvarvi?” E aggiunse: “Studiate voi stessi, coloro che riconosceranno la loro saggezza originaria comporranno un poema. A colui che avrà compreso direttamente l’essenza del mio insegnamento trasmetterò il kesa e il Dharma, sarà il sesto patriarca”.

Per noi non si tratta di utilizzare la pratica di zazen semplicemente come un mezzo per giungere alla felicità. Alcuni lo fanno, ma in questo modo perdono il significato profondo della pratica, facendone una semplice tecnica di benessere. In tal caso, non si è posto fine all’avidità, allo spirito di guadagno dell’ego, che si attacca sempre ad un nuovo oggetto, causa del suo sogno illusorio secondo il quale arriverà qualcosa ad esaudirlo definitivamente. Praticare zazen, è al contrario andare alla radice di questa illusione e liberarsene. Rinunciare ai nostri sogni illusori. Il punto non è ottenere, bensì divenire liberi dallo spirito dell’ottenimento.

Alla richiesta del quinto patriarca Konin, solo lo shussô Jinshu osò rispondere. Nonostante la sua modestia e la sua incertezza, finì per scrivere un poema nel quale diceva: “Il mio corpo è l’albero del risveglio, la mia mente è come uno specchio lucente, costantemente mi sforzo di farlo risplendere senza lasciare che la polvere lo ricopra”.

Era questo per lui il senso della pratica di zazen, e definisce un aspetto della pratica della concentrazione. Per fare zazen, il corpo è come un albero radicato nel terreno, che spinge il cielo con la sommità del capo. Quando ci si concentra sulla pratica del corpo, la mente diventa come uno specchio chiaro, l’agitazione mentale si calma. Poiché i pensieri, i desideri, fenomeni di ogni sorta appaiono continuamente, gli attaccamenti si manifestano, Jinshu costantemente si sforza di ripulire il suo specchio, cioè di eliminare la polvere. In zazen, l’atteggiamento che consiste nel voler scacciare i bonno, nello sforzarsi di rimanere in uno stato di non-pensiero, rimane tuttavia un attaccamento al dualismo.

Leggendo il poema del suo discepolo, Konin affermò: “Coloro che faranno di questo poema il fondamento della loro pratica non cadranno più nei tre cattivi sentieri, poiché la pratica ispirata da questo metodo è di grande profitto”.

Attraverso questo complimento, si vede bene che Konin, in fondo, critica la comprensione di Jinshu. Egli ha l’aria di approvare, di congratularsi, ma in fondo tutto ciò che viene detto è che praticando in quel modo non si cadrà più nei tre cattivi cammini, ovvero nei cammini dell’inferno e delle sofferenze senza fine, delle sofferenze dei gaki [gli “spiriti famelici”], di quelle degli animali.

In effetti, è evidente che non ci si è liberati della trasmigrazione. Fino a che si lotta per eliminare qualcosa, se ne dipende sempre, ciò significa che si attribuisce una realtà, una consistenza, alla polvere che ci si sforza di eliminare. È non vedere con chiarezza di cosa si tratta. Si passa il proprio tempo ad affaticarsi e a spolverare lo specchio, ma vi sarà sempre qualcosa che vi si poserà sopra, si sarà sempre disturbati da qualche illusione, da qualche attaccamento. È la pratica con sforzo, prigioniera dell’attaccamento alla purezza e al rifiuto dell’impurità. Attaccarsi ad una nozione e respingerne un’altra non è l’autentica liberazione, è rimanere bloccati nel dualismo.

Siccome Jinshu aveva sentito dire che il suo maestro aveva fatto un complimento al suo poema, osò presentarsi a lui per ricevere la propria designazione. A quel punto, Konin gli disse: “Gli esseri ordinari che praticheranno secondo il vostro poema non cadranno più nei tre cattivi sentieri, ma coloro che aspirano al risveglio supremo non lo raggiungeranno mai coltivando un siffatto punto di vista. Non vi rimane che attraversare la soglia e vedere la vostra autentica natura”.

In seguito a questo dialogo, Jinshu cercò disperatamente di comporre un nuovo poema, ma non ci riuscì, era come bloccato sulla soglia della porta, non poteva entrare né uscire.


Il poema di Eno

Nel frattempo, il giovane Eno, che aveva sentito parlare del poema, disse: “Ma questo non è affatto l’insegnamento del Maestro Konin”. Poiché era analfabeta, chiese a qualcuno di scrivere un poema che egli aveva composto. Il suo poema diceva: “Nella vacuità, non vi è albero del risveglio né specchio lucente, la natura di Buddha è sempre priva di macchia, dove vi si troverebbe della polvere?”

Ritornare alla vacuità essenziale, è la giusta intuizione durante zazen. Ci si rende conto che tutti i fenomeni che sorgono nella nostra coscienza durante zazen non hanno maggior consistenza delle nubi nel cielo e ci si può contentare di lasciarle passare. A quel punto, la nostra pratica diviene libera da ogni oggetto, si può smettere di combattere contro la polvere.

Tutti erano completamente stupiti del poema di Eno. Ma Konin lo criticò dicendo: “Non è ancora questo”.

In realtà, egli diede appuntamento a Eno a mezzanotte e gli insegnò il Sutra del Diamante [un altro fondamentale testo del buddhismo Mahayana], gli consegnò il kesa [la veste del Buddha], simbolo della trasmissione, e si congedò da Eno raccomandandogli di aspettare tre anni prima di cominciare lui stesso a trasmettere il Dharma."

trad. di M. Tonko Peretti



Si possono consultare:

Il Sutra di Hui Neng, Ed. Ubaldini
D.T. Suzuki, La dottrina zen del vuoto mentale, Ed. Ubaldini
Roland Yuno Rech, Eveil graduel Eveil Subit, Ed. Yuno Kusen
Fa-hai, Manifeste de l'éveil, Ed. du Seuil

1 commento:

  1. Ciao, io sono un Buddha italiano istruito dietro la Guida di Dio principalmente ma anche da altre Divinità, e ti invito a leggere i miei testi e commenti qui:
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