giovedì 12 settembre 2013

"L'arpa birmana", ovvero l'abito fa il monaco

Al termine della XVII Mostra del Cinema di Venezia, nel 1956, venne assegnato il Premio San Giorgio al film “L’arpa birmana” (Biruma no tategoto), del regista giapponese Kon Ichikawa (1915–2008).


La trama del film è così riassunta dal noto critico e storico del cinema Angelo Solmi:
“Nel luglio 1945 la guerra volge al termine: nel tentativo di sfuggire alla morte o alla prigionia, le unità giapponesi valicano i monti o si aprono la via nelle foreste di Burma per raggiungere la Thailandia. I soldati del capitano Inoue marciano cantando, accompagnati dall'arpa birmana del soldato scelto Mizushima. Questi, che conosce la lingua locale, viene mandato avanti e dà il segnale di via libera suonando l'arpa. Vicino al confine i giapponesi sono ospitati in un villaggio, ma poco dopo il villaggio è circondato dagli inglesi. Mentre il capitano Inoue è incerto se resistere o arrendersi, si sente l'arpa di Mizushima che suona "Home, sweet home!", e anche gli inglesi si uniscono al coro. La guerra è finita e i giapponesi vengono rinchiusi nel campo di concentramento di Mudon. Mizushima viene mandato in missione presso una guarnigione giapponese che rifiuta di arrendersi: quando essa viene distrutta, solo Mizushima sopravvive, gravemente ferito, e viene curato da un bonzo. Guarito, egli ruba le vesti al bonzo, si rade la testa e si mette in viaggio per raggiungere Mudon e i suoi compagni. Durante il viaggio vede qua e là i resti insepolti dei soldati nipponici caduti in battaglia; questo triste spettacolo gli fa una profonda impressione e, giunto presso Mudon, rinuncia ad unirsi ai suoi compagni e decide di dedicarsi alla sepoltura dei soldati del suo paese, caduti in terra straniera. Egli parte portando con sé un pappagallo avuto da una vecchia fruttivendola che frequenta il campo di Mudon. Nel passare un ponte incontra i suoi compagni che vi lavorano e tentano inutilmente di indurlo a rimanere. Quando arriva l'ordine di rimpatrio, il capitano Inoue dà alla fruttivendola un altro pappagallo, che dovrà dire a Mizushima di ritornare. Ma alla fine la fruttivendola porterà al capitano il pappagallo di Mizushima che andrà ripetendo: "No, non posso tornare" con una lettera esplicativa dell'ex soldato scelto.”

Uno degli episodi centrali del film è quello del breve incontro tra il soldato Mizushima e il monaco buddhista che si prende cura di lui.
(Lo si può vedere qui: http://www.youtube.com/watch?v=ZEXwInNGg-s&list=PL6C38B7C6441C185C).
Esso termina con la sequenza in cui il militare sottrae al monaco la sua veste monastica, la indossa e si rade la testa, per travestirsi e poter iniziare la ricerca dei compagni.

Ma a partire di qui, l’atteggiamento di Mizushima, la sua stessa vita, cambiano radicalmente: egli abbandona la ricerca dei compagni e l’idea stessa del ritorno, per dedicare se stesso alla sepoltura del soldati giapponesi morti sui campi di battaglia e lì rimasti.

Perché avviene in lui questo cambiamento?

Mizushima, soldato o monaco?
Secondo Solmi, la causa della conversione di Mizushima da soldato a monaco buddhista è l’impressione ricevuta dalla vista dei cadaveri giapponesi insepolti, e la stessa cosa viene detta più o meno negli stessi termini da altri critici. Ma a questo si potrebbe obiettare che l’episodio bellico intorno al quale ruota il film si svolge negli ultimi mesi di guerra, e certamente Mizushima aveva già avuto molte occasioni per vedere da vicino, per vivere personalmente, gli orrori della guerra. Certo, le immagini dei corpi abbandonati (giapponesi, in quanto i soldati che difendevano Burma venivano sepolti dagli abitanti) avevano fatto scattare in lui qualcosa di troppo forte per poterlo ignorare; in fondo, Mizushima amava la musica, il suo animo era più sensibile di quello degli altri soldati… ma forse c’è dell’altro.

Vedendo il film, non si può fare a meno di osservare che l’inizio della trasformazione di Mizushima avviene a partire dal momento in cui indossa la veste del monaco, quella che nel buddhismo Zen è chiamata kesa, dal sanscrito kasaya, alla lettera: color ocra, colore della terra.

Il kesa, tradizionalmente, è una semplice veste, una sorta di mantello (che nello Zen Soto i monaci sono tenuti per quanto possibile a cucire da sé) che esplicitamente si rifà alla veste del Buddha, composta di pezze ricavate da tessuti di scarto, privi di valore, come ad esempio, in origine, erano le stoffe con cui venivano avvolti i cadaveri destinati al rogo.


Così, secondo il maestro Dogen e per tutti i praticanti Zen, il kesa di stracci diviene “il vero kesa. Non lo si definisce così per la qualità della stoffa – sia fatto di seta, di cotone, con filo d’oro o d’argento, che abbia dei ricami o delle incrostazioni poco importa – ma lo si definisce per la concentrazione con la quale lo si indossa o per la vita pura che lo ha animato e che gli ha dato forma durante il confezionamento”. Per questo il kesa è detto “l’abito del non-attaccamento”. 

Secondo la tradizione Zen, indossare il kesa influenza profondamente il corpo e lo spirito: esso manifesta così il suo potere. Quando lo si indossa si recitano questi versi:

Dai sai geda puku / Mu so fukuden e
Hi bu nyorai kyo / Kodo sho shu jo 

Magnifico è questo abito di liberazione,
simile a un campo che dispensa grande gioia e felicità.
Onorando gli insegnamento del Tathagata
facciamo voto di salvare tutti gli esseri senzienti.

Un kesa


Nel capitolo “Kesa Kudoku” dello "Shobogenzo", il maestro Dogen narra la vicenda della monaca Utpalavarna, la quale in una vita precedente era una prostituta, sempre pronta a ridere e scherzare con i compagni. Un giorno, per gioco, indossò il kesa di una monaca. Grazie a questo semplice gesto, al di là delle sue intenzioni, indipendentemente dalle azioni negative che aveva commesso, in momenti successivi della sua esistenza incontrò la Via del Buddha, entrò nel samgha monastico e raggiunse il Risveglio.

A questo punto, si può davvero pensare che anche la vita del soldato Mizushima per il solo fatto di aver indossato la veste del monaco dopo avergliela sottratta, si sia radicalmente trasformata grazie al potere del kesa. al di là della sua volontà personale, e forse anche al di là delle intenzioni coscienti del regista Ichikawa...


Si vedano:

Dogen Zenji, Shobogenzo, Ed. Pisani

Erik Sablé, Dizionario del buddhismo zen, Ed. Il Melangolo

AA.VV., Cinema e Buddismo, Ed. Centro Ambrosiano

http://zenvadoligure.blogspot.it/2012/10/unisabazia-200607-kodo-sawaki.html

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