mercoledì 5 febbraio 2014

I 12 anelli: 11 - La nascita

XI – Jati, la nascita

Undicesimo anello del pratitya samutpada è jati, la nascita, raffigurata con l’immagine di una donna che sta partorendo.
Condizionata dal processo del divenire ha origine la nascita”.
In questo contesto il termine jati indica più precisamente la ri-nascita, essendo jati il primo dei due fattori prodotti (l’altro è vecchiaia-e-morte), laddove brama, attaccamento e divenire sono i fattori di produzione.
Si legge nei Sutra: “Quello che di questo e quell’essere, in questo e in quel gruppo, è nascita, origine, riproduzione, comparsa dei fattori, acquisizione delle modalità sensoriali, viene definito nascita”.
Jati, la nascita

In un altro passo viene detto che “tutto è soggetto alla nascita”, e quel “tutto” viene poi definito come “occhio, forme, coscienza oculare, stimolazione oculare, la sensazione piacevole, spiacevole o neutra che insorge a causa della stimolazione oculare”, per proseguire poi con gli altri sensi, compreso il “senso interno”, mana.
Sono, si noti, gli elementi della prima parte del pratitya samutpada, tutti relativi alla percezione. Quindi tutto l’universo, in quanto percepito, è soggetto alla nascita (e a vecchiaia-e-morte).
Ancora una volta, si evince che per il buddhismo “non c’è alcun mondo esistente di per sé; il mondo è un processo dinamico, che viene costantemente prodotto e deliberatamente costruito dai nostri sensi, dai nostri pensieri e dai nostri desideri (..). Questo non vuol dire che noi e il mondo siamo irreali o una mera illusione. Gli oggetti ci sono, ma le percezioni che di essi noi abbiamo sono loro parti essenziali e costituenti (Johansson).
Si legge nei testi: “è proprio in noi, in questo nostro corpo alto due braccia, con le sue percezioni e la sua coscienza, che c’è il mondo, il sorgere del mondo, la fine del mondo e il sentiero che conduce alla fine del mondo”.
Quindi, noi siamo i costruttori del mondo e pertanto possiamo anche distruggerlo: distruggere il mondo, ovvero esserne indipendenti, è raggiungere il Nirvana, la liberazione, attraverso la comprensione della reale natura delle cose e di noi stessi.

Jati, la nascita, è citata quale primo elemento nell’elenco di ciò che il Buddha definisce come sofferenza nella Prima Nobile Verità: “La nascita è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la morte è sofferenza; tristezza, lamenti, dolore fisico e mentale, angoscia è sofferenza; la separazione da ciò che piace è sofferenza, non poter avere ciò che si desidera è sofferenza”.
Siamo soggetti alla sofferenza in quanto siamo nati, e siamo nati in quanto condizionati da avidya, l’ignoranza che ci impedisce di vedere le cose come sono e quindi ci fa agire spinti dalla brama e dall’attaccamento.
Questa nostra nascita è il frutto del desiderio e dell’attaccamento delle vite precedenti. Il desiderio e gli attaccamenti di questa vita produrranno una futura rinascita, determinandone le condizioni.
È detto: “Gli esseri sono eredi delle loro azioni, le loro azioni sono l’utero da cui sorgono, le azioni sono i genitori, le azioni sono gli arbitri”.

Vengono dunque esclusi due punti di vista opposti tra loro:
-          quello per cui c’è una Entità suprema che ordina l’universo, decidendo quali debbano essere le differenze tra gli esseri e
-          quello secondo il quale tutto nell’universo è caos o casualità.
L’uomo nella visione buddhista è totalmente responsabile della propria vita presente, lo è stato per quelle passate, lo è e lo sarà per quelle future.
Tutto è dovuto a cause e condizioni, e le innegabili differenze tra gli uomini non possono pertanto sussistere senza cause e condizioni, e tale causa non può che essere il processo karmico.
Il tema delle differenze tra gli esseri, che “il karma divide... in superiori e inferiori”, è oggetto di un Sutra, il Culakammavibhanga Sutta (il Sutra delle determinazione dell’azione), che così recita.

Questo ho sentito.
Una volta il Sublime dimorava presso Savatthi, nella Selva del Vincitore, nel parco di Anathapindiko.
Là, Subho, un giovane brahmano, figlio di Todeyyo, si recò dal Sublime, scambiò i consueti cerimoniosi saluti, si sedette accanto e chiese: “Quale è la causa, la ragione per cui anche tra coloro che sono divenuti uomini ci sono inferiorità e superiorità? Infatti si vedono uomini che muoiono giovani e altri longevi; alcuni molto malati e altri sani; brutti e belli; poveri e ricchi; ignobili e nobili; stupidi e intelligenti. Perché?”
“Eredi, proprietari, figli, dipendenti, generati dall'azione sono gli esseri, giovane. L'azione determina gli esseri in quanto a inferiorità e superiorità”.
“Io non intendo interamente il senso di ciò che è stato concisamente detto dal signore Gotamo, senza spiegarne il senso. Sarebbe bene che il signore Gotamo mi esponesse la dottrina in modo che io comprenda”.
“Allora, giovane, ascolta con attenzione. Ecco, una donna o un uomo è distruttore di vita, crudele e sanguinario, dedito all'uccisione e alla strage, spietato per gli esseri viventi. Egli per questo agire, dopo la morte riesce in basso, all'inferno. Ma se non va all'inferno e diviene uomo, è di corta vita. Ecco la ragione.
Però se una donna o un uomo si astiene dall'uccidere e, deposte mazza e spada, vive sensibile, pietoso, amichevole e compassionevole verso tutti gli esseri viventi, allora, dopo la morte si trova in un mondo celeste. Ma se non si trova lassù e diviene uomo, vive una lunga vita.
Ecco che una donna o un uomo è seviziatore degli esseri con le mani, la mazza o la spada. Per tale agire, alla sua morte va all'inferno. Ma se non va là e rinasce uomo, sarà molto malato.
Ecco però che una donna o un uomo non è seviziatore degli esseri. Per tale azione, dopo la morte, si trova in un mondo celeste. Ma se non si trova lassù e diviene uomo, è più sano.
Ecco una donna o un uomo iroso, uno che si arrabbia molto: per poco che gli sia detto, insorge, si adira, va in collera, contrasta, manifesta ira, astio e furore. Per tale agire, alla morte, si trova all'inferno. Ma se non va lì e rinasce uomo, diventa brutto.
Ecco però chi non s'arrabbia: pur provocato seriamente, non insorge, non va in collera. Per tale agire si trova in un mondo celeste. Ma se non va lì e rinasce uomo, si ritrova grazioso.
Ecco chi è invidioso: se altri ottengono guadagno, onore, rispetto, rinomanza, riverenza e venerazione, accumula invidia. Alla morte, va all'inferno; oppure, se rinasce uomo, diventa povero.
Se non è invidioso va in un mondo celeste; oppure, se rinasce uomo diviene un gran possidente.
Ecco che c'è chi non dà ad asceti o sacerdoti cibo, bevanda, veste, veicolo, fiori, odori, profumi, letto, tetto e luce. Quello va all'inferno; oppure, se rinasce uomo diventa poco benestante.
Se invece dà tutte quelle cose agli asceti o ai sacerdoti va in un mondo celeste; oppure, diventa un uomo molto ricco.
Una donna o un uomo è orgoglioso e superbo: non saluta chi è da salutare, non si alza davanti a chi bisogna alzarsi, non offre il posto, non cede il passo, non rispetta, non riverisce, non venera chi se lo merita. Alla morte va all'inferno; oppure, rinasce in una famiglia ignobile.
Chi invece non è orgoglioso e superbo e si comporta correttamente, si trova in un mondo celeste; oppure, nasce in una nobile famiglia.
Ecco una donna o un uomo che, recandosi da un asceta o sacerdote, non gli chiede: 'Cos'è salutare e cosa non lo è? Che è giusto e che non lo è? Cos'è da seguire e cosa non lo è? Che cosa fatta da me, mi riesce a lungo d'infausto dolore; e cosa, invece, mi riesce a lungo di fausto piacere?' Non avendolo fatto, finisce all'inferno; oppure, rinasce stupido.
Chi invece fa quelle domande va in un mondo celeste; oppure, rinasce intelligente.
Ecco chiarito, giovane, come eredi dell'azione sono gli esseri."
Dopo questo discorso il giovane Subho, figlio di Todeyyo, disse al Sublime: “Eccellente, Gotamo, eccellente! Così come se si raddrizzasse ciò che era rovesciato, o si scoprisse ciò che è nascosto, o si mostrasse la via a chi s'è perso, o si portasse luce nell'oscurità: 'chi ha occhi vedrà le cose'; così appunto è stata dal signore Gotamo in vari modi esposta la dottrina. E così io prendo rifugio presso il signore Gotamo, presso la Dottrina e presso l'Ordine dei mendicanti. Quale seguace voglia il signore Gotamo considerarmi da oggi per la vita fedele”.

Rinascita… di che cosa?

Si è più volte affermato che le scuole buddhiste sono concordi nel confutare l’esistenza di un sé individuale (che riguarda gli esseri senzienti) e, per quanto concerne la tradizione Mahayana, anche di un sé fenomenico (cioè relativo ai fenomeni percepiti dagli esseri).
In particolare, per la scuola Madhyamika Prasangika (di tradizione Mahayana), il sé è una pura convenzione, una semplice designazione nominale apposta alla base dei cinque aggregati.
Come noto, i cinque aggregati (skanda = mucchio, cumulo) sono i cinque insiemi (ogni aggregato è a sua volta un insieme) nei quali vengono inclusi tutti i fenomeni fisici e mentali:
-          le forme, del corpo e degli altri fenomeni fisici
-          le sensazioni, le esperienze sensibili piacevoli, spiacevoli e neutre
-          le percezioni, che riconoscono e identificano ciò di cui si fa esperienza
-          le formazioni karmiche o della volizione, che provengono dal karma passato e spingono alla “costruzione” delle condizioni karmiche attuali
-          la coscienza, che riunisce le informazioni degli altri insiemi, è “colui che conosce”, e si pone nella prospettiva dualistica di soggetto/oggetto.
A partire dall’insieme degli aggregati viene erroneamente dedotta l’idea di un “io” permanente, immutabile, con il quale ci si identifica. In realtà, l’io non è il corpo, che cambia costantemente, né le sensazioni, le percezioni o le volizioni, estremamente varie e mutevoli. Né la coscienza, anch’essa composta di istanti di coscienza successivi.
Quindi, come ha detto il maestro theravada Buddhaghosa (V sec, d.C.): “Solo la sofferenza esiste, ma non si trova nessun sofferente, le azioni esistono, ma non si trova nessun agente”.

A questo punto non può non sorgere la legittima domanda: se secondo la dottrina dell’anatta (in sanscrito anatman, non-io) al di là del mero fluire condizionato dei fenomeni non c’è alcun ego, che cosa è che rinasce? Ovvero: quel è il supporto del karma e cosa c’è alla base della continuità tra l’autore dell’atto e colui che ne sperimenta l’effetto karmico?
A questa domanda sono state date tante risposte quante sono le scuole che sono nate nella storia del buddhismo e nella sua diffusione nel mondo. E tutte più o meno insoddisfacenti, se si guarda alla tradizione buddhista come ad un insieme di teorie filosofiche o – ancor peggio – di dogmi religiosi.
Una buona sintesi la si trova nelle pagine di un testo del monaco cingalese Walpola Rahula (1907/1997), “L’insegnamento del Buddha”, nel quale scriveva:

Se non c’è un’entità permanente, immutabile, una sostanza come quella di un Sé o di un’anima (atman), che cosa è quello che può riesistere o rinascere dopo la morte? Prima di parlare della vita dopo la morte, vediamo che cosa è la vita presente e come mantiene una continuità. Quella che chiamiamo vita (..) è la combinazione dei cinque aggregati, una combinazione di forze fisiche e mentali. Queste sono in continuo cambiamento, non rimangono uguali neanche per due istanti consecutivi. Ogni momento nascono e muoiono (..). Di conseguenza anche ora, in questa vita presente, ogni momento noi nasciamo e moriamo, ma, nonostante questo, continuiamo a vivere. Se possiamo comprendere che in questa vita possiamo continuare a esistere senza una sostanza permanente e immutabile come un Sé o un’anima, perché non dovremmo comprendere che quelle stesse forze continuano a esistere, senza un Sé o un’anima per animarle, una volta che il corpo smette di funzionare?
Walpola Rahula
Quando questo corpo fisico non è più in grado di funzionare, le energie non muoiono con lui, ma continuano a esistere prendendo un’altra forma, che noi chiamiamo una nuova vita. (..)
Poiché non esiste una sostanza impermanente e immutabile, nulla si trasmette da un istante all’altro. Così è evidente che nulla di permanente, di immutabile, può passare o trasmigrare da una vita all’altra. Si tratta di una serie continua, senza interruzioni, che cambia in ogni momento. Questa serie, parlando più propriamente, non è niente altro che movimento. È come una fiamma che brucia per tutta la notte: non è la stessa fiamma né un’altra. Un bambino cresce e diventa un uomo di sessant’anni. Certamente un uomo di sessant’anni non è la stessa cosa di un bambino di sei anni, né però un’altra persona. Allo stesso modo una persona che morta qui, rinasce in un altro luogo, non è né la stessa né un’altra. È la continuità della stessa serie. La differenza tra la vita e la morte non è che un istante mentale: l’ultimo istante di attività mentale in questa vita condizionerà il primo istante di attività mentale nella cosiddetta nuova vita che, infatti, è la continuità della stessa serie. Anche in questa vita ogni attività mentale condiziona quella seguente. Così, dal punto di vista buddhista, il problema di una vita dopo la morte non è un gran mistero e un buddhista non si preoccupa affatto di questo problema.
Per tutto il tempo in cui ci sarà sete di essere e divenire, il ciclo della continuità (samsara) andrà avanti. Si potrà fermare solo quando questa forza che lo muove, questa ‘sete’, sarà tagliata via dalla saggezza che avrà la visione della Realtà, della Verità, del Nirvana.

Se si rimane attaccati ai concetti, alle dispute intellettuali, gli insegnamenti sul karma e sulla rinascita – come ogni altro insegnamento – non faranno che creare ulteriori complicazioni, nella mente e nella vita. Ma il buddhismo è essenzialmente una Via, una prassi di liberazione, e non una filosofia, un nuovo punto di vista sul mondo e sull’uomo, una teoria da studiare per poi metterla in pratica.
È questo l’insegnamento del buddhismo Zen, riassunto nelle parole del maestro Roland Yuno Rech: “La pratica dello zazen è imparare a vivere qui e ora. (..) Noi non neghiamo la teoria della trasmigrazione e delle vite successive, ma non ce ne preoccupiamo. Ci concentriamo sulla nostra pratica del Dharma, qui e ora. Non pratichiamo allo scopo di accumulare meriti per ottenere una buona reincarnazione. Anche se questo probabilmente è vero, si tratta tuttavia di una visione limitata.
(..) Gli orientali credono che ci si reincarni da una vita all’altra (..) in funzione della legge del karman. (..) Questa visione è accettata nello Zen e riveste anche una certa importanza. Il maestro Dogen [Giappone, 1200-1253] diceva: ‘Se non crediamo a questa causalità karmica con una ricompensa necessaria in uno dei tre periodi del tempo, e cioè questa vita, la prossima o una vita futura, non avremo fatto neanche il primo passo sulla Via’.
(..) Dobbiamo considerare il karman in rapporto alla nostra vita e dire: “Effettivamente, ciò che mi capita è legato al mio karman”. Pensando così divento pienamente responsabile delle mie azioni e posso assumermi tale responsabilità. È inutile pensare di essere perseguitati dalla sfortuna o vittime di una casualità assurda. (..) Se crediamo al caso non c’è un gran che da fare, ma se vediamo che tutto quello che ci capita è il risultato dei nostri pensieri, delle nostre parole e delle nostre azioni, persino di quelle di un passato molto lontano, prenderemo coscienza che tutto ha un effetto. Saremo allora più vigili e responsabili dei nostri atti.
(..) Certo, possiamo anche mettere sempre in dubbio questa nozione del karma, e affermare che non ci sono prove che ci sia qualcos’altro al di là di questa vita. La semplice osservazione che possiamo fare è dirci che, nel mondo che appare, i fenomeni si producono attraverso una concatenazione di cause ed effetti. Di conseguenza non c’è motivo perché tutto ciò non possa essere trasposto nella vita psichica. (..) Anche se la causalità karmica fosse un mito, l’importante è osservare quali sono gli effetti di questa credenza. Ciascuno di noi deve farne l’esperienza per vedere se è salutare o benefica e soprattutto se ci permette di vivere in pace e in armonia con gli avvenimenti dolorosi che ci capitano”.
Roland Yuno Rech
Nel corso stesso della vita quotidiana è possibile osservare come si sviluppi la legge della causalità karmica, la concatenazione delle cause e degli effetti. Ugualmente, durante lo zazen, e fuori di esso, possiamo osservare la trasmigrazione, la rinascita. “In un’ora e mezzo di zazen viviamo già in questo mondo di trasmigrazione [i sei regni del secondo anello del bhavachakra]. Possiamo andare da uno stato infernale di dolore e di ribellione a uno stato di pace prossimo alla beatitudine, prima di venire ripresi da desideri o da preoccupazioni familiari o finanziarie. Vedere la vita dal punto di vista della trasmigrazione è anche osservare in quale mondo si sta vivendo momento per momento”.


Testi

Cornu                    Dizionario del Buddhismo                                                              Ed. Bruno Mondadori
Falà                       Bhava, il divenire                                                                              in: Paramita n. 41              
Falà                       Jati, la nascita                                                                                   in: Paramita n. 42
Johansson            La psicologia dinamica del buddhismo antico                          Ed. Ubaldini
Roland Rech        Noi siamo dei Buddha                                                                     Ed. Oscar Mondadori
Walpola Rahula  L’insegnamento del Buddha                                                           Ed. Paramita
(Il libro non è più reperibile in commercio. Il testo integrale può essere letto qui:

Il testo del Sutra è reperibile on line qui: http://www.canonepali.net/mn/mn_135.htm






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