sabato 22 febbraio 2014

I 12 anelli: 12 - Vecchiaia e morte

Dodicesimo anello del pratitya samutpada è jara-marana, vecchiaia e morte.
Nelle tradizioni induiste il termine Jara (“che si fa vecchio”) allude al dio Krishna, il quale, dopo la lunga e sanguinosa guerra narrata nel poema epico Mahabharata, si ritirò nella foresta, dove venne ucciso per errore dalla freccia di un cacciatore di cervi, il cui nome era appunto Jara.
Jara era anche, in quanto personificazione dell’invecchiamento, una figlia del dio Mrityu, a sua volta personificazione della morte. Altra figura dei miti induisti relativi alla morte è il dio Yama (yam è ciò che frena, la cessazione, il limite), colui che è preposto al giudizio di coloro che sono morti.
Se jara indica il processo inevitabile dell’invecchiamento, marana è invece la morte, la distruzione.
Ed infatti nell’induismo Mara, altro aspetto di Mrityu (entrambi i nomi derivano dalla radice mri, morire), era associato alla morte per malattia, alle pestilenze, alle uccisioni.
Secondo le tradizionali biografie del Buddha, Mara si manifesta a Siddharta prima che questi ottenga il Risveglio (divenendo appunto un Buddha) e cerca di dissuaderlo dalla sua missione proponendogli, per mezzo delle sue figlie, di dedicarsi alla ricerca dei beni e dei poteri materiali.
In questo ambito Mara rappresenta colui che vuole insinuare il dubbio, colui che crea separazioni, e in tal senso è assimilabile alla ben nota figura del diavolo (etimologicamente “colui che si mette in mezzo”), a Satana nel ruolo di tentatore, di agente provocatore, assunto in epoche più recenti in quanto in origine rivestiva quello di “pubblico ministero”.
Jara - marana

Tornando al bhavachakra, l’anello di jara-marana è raffigurato con l’immagine di un uomo che regge sulle spalle un cadavere avvolto in un telo, mentre lo sta portando al carnaio, o ad un sito di cremazione.
Molto significativo è il fatto che i teli con cui si avvolgevano i cadaveri venivano poi raccolti dai monaci buddhisti e diventavano la “materia prima” con cui venivano confezionati i loro abiti, i kesa, perfetto esempio di rinuncia e di comprensione dell’impermanenza e della vacuità dell’ego.
Si legge nei Sutra: “Condizionate dalla nascita hanno origine la vecchiaia e la morte”.
È fondamentale capire e ricordare che jara-marana è sì il dodicesimo anello in una serie di dodici, ma non è l’ultimo, in quanto in realtà essi non formano visivamente un semplice cerchio, ma vanno visti in una prospettiva temporale, come elementi di una spirale che da un tempo senza inizio si ripresenta costantemente negli stessi punti.
La morte, quindi, non interrompe definitivamente il pratitya samutpada, ma costituisce la fine momentanea di un dato individuo. Le sue stesse azioni, come si è visto, determineranno la formazione di una nuova esistenza, che non è la stessa della precedente ma non è del tutto differente.
Ogni morte, come ogni nascita, non è la prima né l’ultima, e questo avviene fino a quando l’uomo resta attaccato all’esistenza, a causa dell’ignoranza, della brama e dell’attaccamento.
Se grazie alla pratica del Dharma, all’applicazione dei fattori dell’Ottuplice Sentiero (la quarta Nobile Verità), la catena viene spezzata, allora, come si legge nei Sutra, “il passato è distrutto, non vi sarà una nuova rinascita: i saggi che hanno la mente distaccata da una futura esistenza, che hanno distrutto il seme della rinascita, che hanno cessato di coltivare il desiderio, si estinguono a somiglianza di questa lampada”.
Ciò avviene quando si impara a “vedere le cose così come sono” (yatha bhuta), ovvero impermanenti, soggette al mutamento, all’invecchiamento e alla morte. E fonte di sofferenza, se tale realtà non viene pienamente, profondamente accettata.
In genere, parlare di nascita e morte equivale a parlare di inizio e fine definitiva. Per un buddhista significa invece vedere come nascita, invecchiamento e morte siano sempre presenti in noi, vedere come esse vadano di pari passo nel complesso psico-fisico che chiamiamo “io”. Ciò avviene infatti nel corpo e nella mente; l’impermanenza dei processi mentali è evidente a chi porti anche solo per qualche istante l’attenzione su di sé, sensazioni, percezioni, pensieri, nascono, muoiono, rinascono, istante dopo istante. E lo stesso processo si verifica nel corpo, in ogni sua parte, ad esempio nelle cellule che si generano e muoiono continuamente. La morte intesa come termine finale dell’esistenza di un dato individuo è in realtà un processo, che si svolge con modalità diverse: i due flussi, fisico e mentale, durante la vita scorrono di pari passo, alla fine il flusso corporale si dissolve nei suoi elementi di base (terra, acqua, aria, fuoco), che tornano all’origine, il mentale fluisce secondo il karma accumulato e nell’ultimo istante di coscienza di un certo individuo dà origine ad una nuova esistenza.

Nonostante i secoli, i millenni di evoluzione umana, nonostante i progressi di ogni tipo, culturali, tecnologici, anche spirituali, la veridicità dell’affermazione del Buddha secondo cui “la vecchiaia è sofferenza, la morte è sofferenza” (nella prima Nobile Verità) non è stata minimamente scalfita. Ed è a tal punto vera che anche lo stesso pensiero della morte è fonte di sofferenza, in quanto l’uomo “ordinario” non accetta, se non a livello puramente razionale, e quindi superficiale, che alla nascita segua necessariamente la morte.
Anzi, le società del mondo industrializzato hanno ulteriormente accentuato la tendenza degli individui e dei gruppi umani al rifiuto del pensiero della morte, contribuendo così ad aggiungere altra sofferenza alla sofferenza stessa. È il fenomeno che gli studiosi chiamano “rimozione della morte”.

La rimozione della morte

12 marzo 1763: una data chiave nella storia della società occidentale moderna. Il Parlamento di Parigi emana un decreto che prevede la chiusura dei cimiteri all’interno della città e la loro apertura fuori di essa, nei dintorni.
Al di là del fatto che il decreto non sia stato applicato se non dopo diversi anni (Editto di St. Cloud del 1804. Si ricordi Foscolo: “Pur nuova legge impone oggi i sepolcri / fuor de' guardi pietosi…”), e al di là delle motivazioni “oggettive” (igienico-sanitarie, economiche…) che lo hanno ispirato, resta il fatto che l’ordinanza del Parlamento esplicita concretamente il profondo mutamento intervenuto nelle modalità con cui l’uomo europeo del XVIII sec. pensa e vive la morte, in tutti i suoi aspetti.
Si è trattato di un processo lento, iniziato nei decenni precedenti, parallelo a fenomeni epocali interdipendenti quali la formazione delle classi borghesi, l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la laicizzazione della società ecc.; fenomeni strutturali e culturali che non hanno coinvolto omogeneamente e contemporaneamente tutti gli strati sociali, in Francia come altrove. Ma è stato comunque un processo irreversibile, in cui l’espulsione dei cimiteri dall’interno delle città illustra visivamente, come un quadro o una fotografia, un aspetto centrale della società occidentale post-industriale: il fenomeno della rimozione della morte.
Nel corso del XIX e del XX sec., scrive lo storico Philippe Ariès, “una maniera del tutto nuova di morire è comparsa (..) in alcune fra le regioni più industrializzate, più urbanizzate, più tecnicamente avanzate del mondo occidentale”: “la società ha espulso la morte”. E’ un fenomeno che si manifesta a tutti i livelli: il rapporto del moribondo con la propria morte e con chi gli sta intorno, l’ospedalizzazione della morte, il trattamento del corpo, le modalità del lutto e della sua elaborazione, la ritualità e i funerali, i cimiteri, il linguaggio relativo alla morte e al morto, ecc.
E’ certamente una descrizione riduttiva e semplicistica di un fenomeno complesso, disomogeneo, che è profondamente studiato nei suoi aspetti da storici, filosofi, psicologi. Esiste infatti un ramo specialistico del sapere chiamato tanatologia, il che sembra quasi contraddire quanto detto finora. Ma la auto-anestesia della società moderna nei confronti della morte è comunque un dato di fatto, ben sintetizzato da Enzo Bianchi, Priore della Comunità monastica di Bose, il quale scrive che “la morte appare rimossa e, al contempo, spudoratamente esibita; resa oscena, cioè scacciata dalla scena dei vivi, estraniata dal mondo delle relazioni sociali, e spettacolarizzata (..), quasi in un rito di esorcizzazione collettiva officiato dai mass-media. Una società narcisistica cerca di rimuovere la memoria dei limiti e anzitutto quell’evento, la morte, che ha il potere di annichilire tutti i deliri di onnipotenza dell’uomo”. La morte, in effetti, costituisce lo scacco di ciò che sta al centro della nostra società: la produzione e il consumo di merci. Consapevolezza della morte e feticismo delle merci sono elementi tra loro contraddittori ed inconciliabili.
In tal modo, l’individuo e la società, credendo di rimuovere una fonte di sofferenza, si privano proprio di ciò che può “divenire rivelazione, aprire squarci di senso sulla vita” (E. Bianchi). L’uomo, anestetizzandosi dal pensiero della morte, si rivolge alla causa della malattia scambiandola per la terapia. E crea nuova sofferenza a partire dalla sofferenza.
Enzo Bianchi ci ricorda infine che fu proprio la visione di un morto (dopo un vecchio e un malato) a segnare l’iniziazione alla via della liberazione dalla sofferenza per Siddhartha, il futuro Buddha, che da quel momento si allontanò dal Palazzo nel quale le cure paterne lo volevano preservare dalla visione dei mali del mondo.
Anche da questo punto di vista, affatto secondario, gli insegnamenti del Buddha vanno decisamente contro-corrente rispetto alle tendenze di fondo della società. A meno che non siano i valori oggi dominanti ad andare in direzione contraria rispetto ai reali bisogni dell’uomo….

Immagini della morte nelle tradizioni buddhiste

Il tema della morte si connette indissolubilmente ai grandi temi del buddhismo: l’impermanenza, il karma, la non-sostanzialità del sé, l’interdipendenza, la sofferenza. Ma non come modalità teorica, bensì come vera e propria pratica (lo si ricordi, il buddhismo non è una filosofia, ma una prassi). Al punto che il Buddha stesso disse che come tra le impronte degli animali quella dell’elefante è la più grande, così tra le meditazioni quella sulla morte è la suprema.

Per iniziare a comprendere l’insegnamento del Buddha sulla morte, ci si può affidare non solo ai Sutra nei quali esso è esposto, quanto invece ai racconti di due donne, due monache vissute all’epoca del Buddha. Le loro vicende sono narrate nel Therigatha (Le Strofe delle Anziane), un antico testo che fa parte del Canone Buddhista, nel quale le monache narrano le loro vicende umane.
La prima è Kisagotami, donna di nobili origini, alla quale morì l’unico figlio, ancora bambino. Impazzita dal dolore, correva di porta in porta con il cadavere del piccolo sul fianco, chiedendo per lui una medicina. Tutti la respingevano con disprezzo, ma uno, più saggio, la indirizzò dal Buddha. Ella vi si recò, e gli chiese un rimedio per il figlio. Il Buddha, “scorgendo la promessa che in lei era racchiusa”, le disse: “Vai, entra in città, e riporta un piccolo seme di mostarda da ogni casa nella quale non sia morto nessuno”. Così ella fece, inutilmente, in quanto in nessuna casa non era mai morto nessuno. Alla fine, la sua pazzia si placò, e pensò: “Evidentemente questo è l’ordine naturale delle cose in tutta la città. Il Beato previde questo, preso da pietà, per il mio bene”. Portò quindi il corpo del figlio nel cimitero, dicendo: “Non è questa legge di villaggio e neppure di città, né è la legge di una sola stirpe, ma in tutto il mondo ed anche per gli dei nel cielo questa è la legge: tutto è impermanente!”. Infine, tornò dal Buddha, ed entrò nell’ordine monastico.
Ugualmente significativo è il racconto di Patacara, figlia di un tesoriere, la quale abbandonò la casa paterna dopo essere divenuta l’amante di uno dei servitori. Mentre ella stava partorendo il loro secondo figlio, il marito entrò nella foresta per tagliare delle frasche per farle un riparo, ma venne ucciso da un serpente velenoso. Patacara prese con sé i figli per tornare dai genitori, ma durante il viaggio il piccolo le fu rapito da un falco, e l’altro morì annegato in un fiume in piena. Sconvolta dal dolore, mentre entrava nella città natia venne a sapere che la casa paterna era crollata, seppellendo padre, madre e fratello. Impazzita per il dolore, iniziò a girare in tondo, con le vesti che le cadevano a terra (Pata-acara = che va in giro trascinando la veste), mentre la gente le tirava immondizia e zolle di terra, in segno di disprezzo. La vide però il Buddha, il quale le si avvicinò, “contemplò la maturazione della di lei conoscenza” e le disse: “Sorella, riacquista la consapevolezza”. Dopo aver ascoltato il suo racconto, la rese consapevole con queste parole: “Patacara, non pensare che tu sia venuta da uno capace di esserti di aiuto. Proprio come tu ora stai versando lacrime per la morte dei tuoi bimbi e per il resto, così tu hai, in un infinito giro di esistenze, versato lacrime per la morte di bimbi ed altro, più abbondanti che le acque contenute nei quattro oceani.
Sono meno le acque dei quattro oceani
che la vasta distesa di acque, in lacrime versate,
dal cuore dell’uomo che si lamenta toccato dal dolore.
Per chi sprechi la tua vita, crogiolandoti in acerbi lamenti?
E ancora:
Non sono di riparo i figli, né il padre né alcun altro parente:
afferrata che tu sia dalla morte il vincolo del sangue non ti è di rifugio.
Questa verità discernendo il saggio, ben fondato sulla retta condotta,
rapidamente scopre la via conducente al Nirvana”.
Quindi, anche Patacara, il cui dolore era ormai più leggero da sopportare, entrò nell’ordine monastico. Un giorno, mentre si lavava i piedi, gettò via un poco di acqua, e la osservò mentre si spargeva per un breve tratto, prima di essere riassorbita nel terreno. Ne versò dell’altra, che arrivò più lontano. La terza volta, l’acqua andò ancora più in là. Osservando questo, Patacara sviluppò un pensiero: “Così pure i mortali muoiono, o nell’infanzia o nella mezza età o nella vecchiaia”. Il Buddha assistette da lontano alla presa di consapevolezza della monaca, e disse:
L’uomo che, vivendo un centinaio d’anni,
non contempla mai come sorgano e scompaiano le cose,
sarebbe stato meglio per lui vivere solo un giorno,
ed in quel giorno scorgere il flusso degli eventi”.
Per Patacara come per Kisagotami, si passa dalla disperazione ad un primo grado di liberazione: la realizzazione dell’universalità della morte e del suo carattere di assoluta naturalità. La loro è “una radicale accettazione della morte”, come dice Corrado Pensa. Ma il salto compiuto dalle due donne non è per nulla casuale o automatico. In entrambi i casi, si noti, il testo afferma chiaramente che il Buddha aveva visto in loro una promessa (Kisagotami) o una maturazione (Patacara). Quel salto di consapevolezza, di liberazione, può solo essere il frutto di una pratica spirituale. E nel buddhismo (e non solo in esso, va ribadito) “dire pratica spirituale significa automaticamente dire pratica sulla morte e, al contrario, dire pratica sulla morte significa dire pratica spirituale” (C. Pensa).
Un esempio di cosa significhi “pratica sulla morte” ci viene dalla meditazione sulla morte esposta nel Lam-rim, “Il Sentiero Graduale”, un sistema di pratica centrale nella tradizione tibetana della scuola Gelugpa, nella quale fu introdotto dal Lama Tsongkhapa nel XIV sec. In effetti, le scuole del buddhismo tibetano sono ricchissime di testi e insegnamenti sulla morte e sul morire, ed hanno sviluppato un approccio “pratico” al problema difficilmente riscontrabile nelle altre tradizioni spirituali, buddhiste e non.
La meditazione esposta nella prima parte del Lam-rim è detta “Tre radici, nove ragioni, tre determinazioni”, e si sviluppa secondo il seguente schema:

Prima radice
1 - l'inevitabilità della morte
Tre ragioni
1a - a suo tempo la morte arriva per tutti gli esseri umani
1b - giorno dopo giorno la vita diminuisce e non c'è alcuna speranza di poterla allungare
1c - anche se siamo vivi troviamo pochissimo tempo per praticare il dharma
Prima determinazione
1 - determinazione di praticare il Dharma

Seconda radice
2 - l'incertezza del momento della morte
Tre ragioni
2a - su questo pianeta la vita umana non ha una durata fissa
2b - la vita ha molte forze che le si oppongono e poche che le sono favorevoli
2c - il corpo umano è estremamente fragile
Seconda determinazione
2 - determinazione di praticare il Dharma immediatamente

Terza radice
3 - al momento della morte solo le proprie realizzazioni spirituali hanno valore
Tre ragioni
3a - ricchezze, proprietà, fama o potere sociale non sono di nessun valore
3b - la famiglia, gli amici e i parenti non ci sono di nessun aiuto
3c - perfino il vostro corpo non avrà più alcun valore
Terza determinazione
3 - determinazione di praticare il Dharma in modo puro, non mischiato a tendenze materialistiche.

Il meditante, seduto correttamente, osserva le tre radici, con le corrispondenti ragioni e determinazioni, quindi, secondo i tempi e le modalità insegnategli, medita formalmente su ogni singola ragione, giorno dopo giorno, concludendo ogni sessione su tutti i punti, per arrivare dopo un certo periodo a lavorare sull’intera meditazione. Ed ogni volta, alla fine della seduta, recita una preghiera, ad esempio: “grazie al potere di questa pratica possa io raggiungere rapidamente la perfetta buddhità e possa così ogni essere senziente realizzare l’eterna felicità della saggezza”, dove, come si vede, la pratica è sempre finalizzata al beneficio di tutti gli esseri, mai solo al proprio vantaggio.
Bodhidharma
Ancora un breve cenno sul tema della morte, nella tradizione Zen questa volta, con la storia di Bodhidharma, il monaco che nel VI sec. d.C. portò dall’India alla Cina la pratica del dhyana, divenendo il primo Patriarca Ch’an (in giapponese Zen). Il padre di Bodhidharma, sovrano di un piccolo regno dell’India del Sud, si ammalò e morì dopo una lunga agonia, che segnò profondamente il figlio. Il giovane, dopo le esequie, si sedette accanto alla tomba, e vi restò immobile in profonda meditazione per sette giorni. Alla fine di questo ritiro, due suoi fratelli gli domandarono perché avesse fatto questo e si sentirono rispondere: “Ho voluto vedere dove era andato mio padre, ma non ho visto altro che il sole che brilla sulla terra e nel cielo.

Diceva il maestro Taisen Deshimaru (1914-1982):

anche se li amiamo,
i fiori appassiscono e muoiono;
e le erbacce, anche se le detestiamo,
spuntano e vivono…
Durante la vita non dovete cadere nell’adorazione del paradiso.
Dopo la morte, non dovete avere paura dell’inferno.


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