venerdì 23 gennaio 2015

Il buddhismo nel Milione di Marco Polo

Può essere utile, per meglio comprendere le vicenda di Marco Polo e la storia del suo incontro col Dharma del Buddha, una sintetica cronologia della diffusione del buddhismo[1], a partire dalla nascita del Buddha Shakyamuni (tutte le date sono indicative e variano a seconda degli autori):
566 – 486 a.C.              nascita e parinirvana del Buddha
326 a.C.                        Alessandro Magno attraversa il fiume Indo
250 a.C.                         introduzione del buddhismo a Sri Lanka
100 a.C. – 100 d.C.      il buddhismo arriva in Cina e in Cambogia
 150 d.C.                       introduzione del buddhismo nel Vietnam…
400                                …in Birmania e in Corea
500 – 600                      …in Giappone
600 – 700                      …in Tibet
1000                              …in Thailandia
1200 – 1300                  il buddhismo scompare dall’India
1800                              l’Occidente comincia ad interessarsi al buddhismo.

* * * *

Uno dei testi più noti della letteratura italiana – anche se spesso viene letto solo in qualche versione “per ragazzi” – è il “Milione” di Marco Polo, un’opera redatta tra il 1295 e il 1298 che riporta, tra l’altro, le prime informazioni sul buddhismo mai pervenute in Occidente.
L’autore era nato a Venezia nel 1254, e qui morì nel 1324. Fu mercante, narratore, ambasciatore, ed uno dei più famosi viaggiatori di tutti i tempi. A lui, quasi due secoli dopo, si ispirò Cristoforo Colombo nel concepire i viaggi che lo portarono in America, pur credendo di essere giunto per mare in quel Catai, la Cina, che Polo aveva raggiunto via terra viaggiando in senso opposto.
E grazie alle informazioni raccolte nella sua opera il cartografo e monaco camaldolese fra’ Mauro aveva potuto compilare il suo famoso mappamondo, intorno al 1450.
Marco apparteneva ad una famiglia di mercanti e viaggiatori veneziani: nel 1260 i fratelli Matteo e Niccolò Polo (lo zio e il padre di Marco) avevano già raggiunto la Cina (in quell’epoca dominata dai Mongoli) ed erano poi tornati in Italia nel 1269 con una ambasciata per il Papa da parte di Kubilai Khan, quinto Gran Khan[2] dei Mongoli dal 1260 e dal 1271 primo imperatore della Cina della dinastia Yuan.
Marco Polo
Dopo due anni, nel 1271, i due fratelli ripartirono per l’Oriente portando con loro il giovane Marco, in un viaggio che durò in tutto 25 anni. Attraversarono l’Armenia, giunsero poi in Persia, attraversarono il deserto del Gobi e in tre anni e mezzo arrivarono in Cina fino a Khanbaliq (“la città del Khan”), oggi Beijing (Pechino). Lì Marco ottenne la fiducia di Kubilai Khan e ne diventò consigliere e ambasciatore, rimanendo al suo servizio per oltre 15 anni. Solo nel 1295 i Polo ritornarono in patria via mare, toccando il Sud Est Asiatico, Sri Lanka e l’India, ed infine nuovamente via terra.
Poco tempo dopo, Marco rimase coinvolto in una battaglia navale con i Genovesi[3], dai quali fu fatto prigioniero. In carcere a Genova conobbe Rustichello da Pisa, scrittore, anch’egli catturato dai Genovesi (alla Meloria), e a lui dettò i ricordi del suo viaggio, le descrizioni dei luoghi, dei popoli, delle culture, degli animali e delle piante che aveva visto, ovvero tutte quelle informazioni che compongono l’opera oggi nota come “Milione”, una sorta di enciclopedia dell’Asia medioevale, così come l’aveva direttamente conosciuta il mercante di Venezia.
L’opera originaria (oggi perduta) era intitolata “Le divisement du monde”, la descrizione del mondo, ed era redatta in francese medioevale, la lingua in cui Rustichello scriveva le sue opere. Il testo – che ebbe da subito una enorme diffusione in tutto il mondo – fu successivamente rielaborato, anche con titoli diversi, tra cui “Livre de Marco Polo, citoyen de Venis, dit Million, où l’on conte les merveilles du monde”. Di qui, il titolo più famoso, il “Milione”, probabilmente originato dal nomignolo “Emilione” attribuito allo stesso Marco.
Il viaggio di Marco Polo
Ciò che in questa sede più interessa è il fatto che nel Milione sono riportate le testimonianze di uno dei primi incontri documentati tra la spiritualità occidentale, mediterranea, e quella orientale. In particolare, Marcò osservò di persona diversi aspetti della religiosità orientale e ne diede alcune interessantissime descrizioni. Fu probabilmente il primo europeo (di cui si abbia notizia) a parlare per esperienza diretta del buddhismo, anche se con i limiti che vedremo.
Forse il primo contatto con la cultura buddhista Marco lo ebbe nel Chescimur, l’attuale Kashmir. Gli abitanti di questo territorio, dal quale si accede al cuore dell’India, vengono da lui definiti “idolatri”, e questo è il termine che Polo usò per definire coloro che non erano né cristiani, né ebrei né islamici. Le religioni a lui note erano infatti le religioni abramitiche, anche nelle loro varianti, per esempio i cristiani nestoriani[4], presenti in molti dei territori dominati dai Mongoli, Cina compresa; gli “altri” erano da lui chiamati “idolatri”, anche se non dimostrava nei loro confronti disprezzo, anzi era sicuramente incuriosito ed interessato alle differenze tra le diverse tradizioni.
Nel capitolo del Milione sul Chescimur[5] distingue “certi loro romiti che abitano in eremitaggi e digiunano severamente; fanno vita castissima e si guardano con ogni diligenza dal peccare contro la loro religione” (forse adepti dello Yoga?) da altri “monaci” che vivono “in abbazie e monasteri” dove “seguono regole rigidissime e portano tonsura come i nostri domenicani e i nostri frati minori”. Che sia questo il racconto del primo incontro (documentato) della storia tra un occidentale e dei monaci buddhisti?

All’epoca del Milione il buddhismo era ormai scomparso dall’India, a causa delle invasioni islamiche, della rinascita dell’induismo e delle crisi interne del buddhismo stesso. Ma si era già diffuso in gran parte dell’Asia, in particolare nei territori toccati da Polo: la Mongolia, il Tibet, la Cina e, durante il ritorno, Sri Lanka. Il buddhismo da lui descritto, come si capirà secoli dopo, è quindi quello Mahayana (tranne a Sri Lanka), soprattutto nelle varianti del Vajrayana (un tempo chiamato Lamaismo).
I Mongoli avevano incontrato il buddhismo già durante il regno di Genghis Khan (1162 -1227), noto anche come Temujin, il creatore del più vasto impero mai esistito nella storia umana, che andava dall’Europa Orientale alla Cina. Alla sua corte erano giunti molti monaci e Lama tibetani, che avevano fatto conoscere il buddhismo all’imperatore mongolo e al suo popolo. Esso ebbe fin da subito grande fortuna presso i mongoli, anche se l’immagine del Buddha che essi si fecero era quella di un essere trascendente “cui obbedivano dei e demoni, le forze naturali e occulte e gli spiriti dei defunti: figura lontana da quella dell’Illuminato, che intese liberare l’uomo dalle passioni che lo avviliscono, dagli istinti che lo tradiscono e dal dolore che lo perseguita senza tregua dalla nascita alla morte[6].
Il Buddha stesso era conosciuto dai Mongoli con il nome di “Sagamoni Borcan” (da Shakyamuni Buddha), e lo stesso Kubilai, nelle parole di Marco Polo, lo definisce “profeta[7], al pari di Gesù, Mosè e Maometto.
Pochi decenni dopo la morte di Genghis Khan, sarà Kubilai Khan a promuovere la conversione al buddhismo dei Mongoli, affidando inoltre importanti incarichi civili e religiosi ai Lama e preparando così la strada alla nascita della figura del Dalai Lama e del suo potere temporale e religioso sul Tibet, che terminerà con l’invasione cinese del secolo scorso.
Kubilai Khan

Quando Polo parla di Kubilai Khan e del suo regno, nomina più volte i “Bacsi”, ovvero i Lama tibetani, che esercitavano una notevole influenza presso la corte del Khan. Dalle descrizioni esce una raffigurazione del buddhismo come di una pratica molto più vicina alla magia e all’astrologia (in un passo sono definiti “i sapienti astrologi”) che alla spiritualità: ad esempio, quando il tempo peggiora, il Khan chiama questi “sapienti incantatori che, con la loro forza d’incantamento, allontanano dal cielo ogni nube[8]. Sono chiamati Tebet o Chesmur, per il loro paese d’origine (il Tibet e il Kashmir, evidentemente), oppure, come già detto, Bacsi. Sono descritti come persone molto sporche e privi di vergogna, addirittura dediti talvolta al cannibalismo. Con le loro arti magiche riescono a spostare oggetti, e durante i pasti “fanno sì che le coppe colme si sollevino da terra senza che nessuno le tocchi e vadano a posarsi davanti al Gran Khan. Egli beve e le coppe ritornano vuote al loro posto[9].
Nei paragrafi dedicati al Tebet, il Tibet, che Polo ha toccato durante il soggiorno alla corte del Khan, i Tibetani sono descritti come “i più sapienti incantatori e i migliori astrologi di tutte le province circostanti e fanno i più diabolici incantesimi e i più prodigiosi a vedersi e a dirsi, tutto per arte del demonio, cose che non possiamo raccontare nel nostro libro perché spaventerebbero la gente[10].
I Bacsi, cioè i Lama tibetani, adorano degli idoli – purtroppo Polo non descrive mai l’iconografia buddhista – ai quali offrono montoni, incenso, aloe e altro, in cambio della loro protezione sui raccolti e sul bestiame. Il tono della descrizione cambia un poco quando si parla dei monasteri: “E vi sono monasteri ed abbazie vasti come piccole città dove vivono più di duemila monaci che vestono più decentemente degli altri, hanno la barba rasa e il capo raso. Fanno ai loro idoli grandissimi onori con luminarie e canti e raramente si può sentirne e vederne di simili. Tra i Bacsi di cui parliamo ve ne sono alcuni che possono prendere moglie secondo le regole del loro ordine religioso[11].
Molto interessante è un’annotazione in merito alla generosità, una delle pratiche fondamentali nel buddhismo (dana, il dono): prima di conoscere “la legge degli idolatri”, ovvero il Dharma, i Mongoli – dice Polo – non facevano mai elemosine, anzi i poveri erano oggetto di emarginazione. “Ma poi i Bacsi, ovvero i sapienti degli idolatri, convinsero il Gran Khan che l’elemosina è un’opera buona e che gli idoli se ne rallegrerebbero molto; e da allora il Gran Signore provvede ai poveri come vi ho detto[12], cioè con distribuzioni quotidiane di riso, miglio e altri generi alimentari a favore dei bisognosi.
Ugualmente significativo l’accenno alla legge del karma e alla rinascita: “L'anima, per loro [i Mongoli], è im­mortale in questo modo: pensano che appena muore l'uomo entra in un altro corpo e, secondo che in vita l'uomo si sia portato onestamen­te o male, procede di bene in meglio o di male in peggio: un povero, che si sia portato bene, rinascerà dopo morto da una gentildonna e sa­rà gentiluomo; e poi da una signora, e sarà signore; e cosi, sempre ascendendo finché sarà assunto in Dio. Se invece avrà vissuto male, essendo figlio di un gentiluomo rinascerà da un contadino, e da un contadino scenderà in un cane, discendendo sempre a vita più vile[13].
L’ultima e più lunga notazione sul buddhismo la si trova verso la fine dell’opera, nel cap. CLXXIX, quando Polo torna a parlare dell’isola di Sri Lanka, da lui chiamata “Seilan” (fino al 1972 si chiamava infatti Ceylon), che toccò durante il viaggio di ritorno in Occidente.
Vale la pena di riportare per intero le sue parole:
Abbiamo parlato delle usanze di questi idolatri; adesso vi rac­conteremo una bella storia che avevamo dimenticata intorno all'isola di Seilan; ed è una storia che vi stupirà molto.
Seilan, come ho detto già in questo libro, è una grande isola. Quest'isola ha una montagna molto alta, dalle pareti cosi scoscese che nessuno potrebbe salirvi se non nella maniera che vi dirò: dall'alto del­la montagna pendono molte catene di ferro congegnate e fissate in tal maniera che gli uomini possono arrampicarsi aiutandosi con le catene fino al sommo della montagna. Dicono che lassù ci sia il sepolcro di Adamo nostro progenitore. Dicono cosi i saraceni: gli idolatri invece dicono che è la tomba di Sagamoni Borcan.
Questo Sagamoni fu il primo uomo che sia stato fatto idolo. Perché secondo la leggenda è stato l'uomo migliore che abbia mai vis­suto: e fu il primo che abbiano venerato come santo, e il primo idolo che abbiano avuto.
Era figlio di un gran re ricco e potente ed era di tale santa vita che non volle occuparsi mai di nessuna cosa mondana né diventare re. Il padre, quando vide che suo figlio non voleva diventare re né voleva interessarsi a nessuna cosa mondana, fu preso da gran collera: gli fece grandi offerte, gli disse che voleva incoronarlo e lasciarlo regnare co­me gli piacesse: avrebbe abdicato, non avrebbe più comandato lascian­do al figlio ogni potestà. Il figlio rispose di non voler niente. E quando il padre fu certo che non voleva in nessun modo la signoria, si addolo­rò così profondamente che quasi ne morì; e si può capire, perché ave­va questo figlio solo e non sapeva a chi lasciare il trono.
Il re allora pensò di agire in questo modo: decise di fare una co­sa che secondo lui avrebbe piegato volentieri il figlio ai piaceri terreni e che gli avrebbe fatto prendere regno e corona. Lo fece alloggiare in un palazzo bellissimo con trentamila fanciulle belle e attraenti per servir­lo. E nessun uomo osava entrare là dentro; soltanto le fanciulle erano con lui, lo mettevano a letto, gli preparavano la tavola, e gli facevano sempre compagnia. Cantavano e ballavano alla sua presenza e cerca­vano di divertirlo il più possibile secondo il comando del re. Ma nessu­na poté far sì che il giovane si lasciasse sedurre dalle cose amorose, an­zi sembrava sempre più risolutamente casto. E faceva una vita molto austera secondo le loro usanze.
Dovete sapere che il giovane era cresciuto con tanta delicatezza che non aveva mai messo piede fuori dal palazzo, e non aveva mai vi­sto un morto, né incontrato nessuno che non fosse sano nelle membra. Il padre non permetteva che gli apparisse davanti un uomo vecchio o infelice. Avvenne che un giorno il giovinetto, cavalcando per la via, vedesse un uomo morto e restasse stupefatto non avendone mai visti: domandò subito a quelli del suo seguito che cosa fosse: e quelli rispo­sero che era un morto.
“Come – disse il principe – allora tutti gli uomini muoiono?”
“Certo, tutti” gli risposero.
Il giovane non disse altro e cavalcava pensoso. E dopo aver ca­valcato a lungo incontrò un uomo molto vecchio che non poteva cam­minare e non aveva denti in bocca perché gli erano caduti tutti per la sua gran vecchiaia.
Quando il figlio del re vide il vecchio domandò chi fosse e per­ché non poteva camminare. Gli fu risposto che per vecchiaia non pote­va camminare e che per vecchiaia aveva perduto i denti. Intese a fondo queste cose, del morto e del vecchio, il figlio del re tornò al palazzo e disse che non voleva più stare in questo tristissimo mondo ma sarebbe andato a cercare colui che non muore mai e che lo aveva creato. La­sciò dunque il palazzo di suo padre e se ne andò su monti altissimi e dirupati e visse là tutta la sua vita austeramente e castamente facendo molta astinenza. E certo se fosse stato cristiano sarebbe stato un gran­de santo in compagnia di Nostro Signore Gesù Cristo.
Quando il figlio del re morì, il suo corpo fu riportato al padre; ed è inutile narrare quale angustiato dolore provasse il vecchio re nel veder morto colui che amava più di se stesso. Indicibile fu il suo pianto; poi fece fare una statua a sua immagine tutta d’oro e di pietre preziose e lo fece onorare dai sudditi come un dio. Dissero di lui che morì ottantaquattro volte e tutte le volte reincarnandosi in un animale: la prima volta in un bue, poi in un cavallo, poi in un cane: all’ottantaquattresima volta dicono che morì e divenne dio. Per gli idolatri è lui il più gran dio che abbiano, il primo, dal quale discesero poi gli altri. E ciò accadde nell'isola di Seilan, in India.
Vi ho raccontato del primo idolo. E aggiungo che gli idolatri vengono da molto lontano in pellegrinaggio come i cristiani vanno a San Giacomo di Compostella. Essi dicono che la tomba che si trova su quella montagna sarebbe del figlio del re di cui abbiamo parlato; i denti, i capelli e la scodella che vi sono conservati sarebbero di lui, di questo Sagamoni Borcan che nella nostra lingua vorrebbe dire Sagamoni il Santo. I saraceni, invece, che anche loro vanno in pellegrinag­gio a quella tomba, affermano che quello è il sepolcro di Adamo nostro progenitore e che suoi sono i denti, i capelli e la scodella che vi si conservano.
Ho raccontato cosi come gli idolatri dicono che la tomba è del figlio del re loro primo idolo e loro primo dio, e i saraceni dicono che è di Adamo nostro primo padre; ma Dio sa chi è e chi è stato. Per no­stro conto non crediamo che le reliquie siano di Adamo perché la Sa­cra Scrittura disse che è stato sepolto in un’altra parte del mondo.
Avvenne ora che il Gran Kan sapesse che nella montagna di Sei­lan si diceva essere il sepolcro di Adamo, e che vi si trovavano i suoi denti, i capelli e la sua scodella. Decise che doveva avere lui queste co­se preziose e mandò subito una grande ambasceria: e ciò avvenne l'an­no 1284. Vi posso assicurare che i messaggeri del Gran Kan con un se­guito numeroso si misero in via e viaggiarono tanto per terra e per ma­re che arrivarono infine all'isola di Seilan. Andarono dal re e tanto fe­cero che riuscirono ad ottenere i due denti mascellari che erano grossi e lunghi; e i capelli; e la scodella. Questa era bellissima, di porfido ver­de. Ottenute queste cose i messaggeri tornarono dal Gran Kan e quan­do furono vicini alla città di Cambaluc dove egli soggiornava gli fece­ro sapere che portavano ciò che erano andati a prendere. Il Gran Kan comandò subito che tutte le sue genti, religiosi e non religiosi, andasse­ro in corteo a incontrare le reliquie credute del padre Adamo. E per concludere vi dirò che tutta Cambaluc andò incontro alle reliquie e i religiosi le presero in consegna con gran gioia festa e venerazione. Quei religiosi trovarono nelle loro scritture che la scodella di porfido verde aveva questa proprietà: mettendovi vivande per un uomo si sfa­mavano cinque uomini. E il Gran Kan aveva fatto fare la prova e disse che quella era la verità.
In questo modo ebbe il Gran Kan le credute reliquie di Adamo e non si può dire che non gli siano costate[14].

Al di là del racconto sulla vita del Buddha, che riporta dei particolari nuovi rispetto a quanto comunemente tramandato (ad es. il fatto che il padre fosse ancora vivo al momento della morte del Buddha), e della “disputa” sulle reliquie[15], due sono i punti di maggior interesse in questo brano:
1 – Polo parla del Buddha come del “primo uomo che sia stato fatto idolo”, “l’uomo migliore che abbia mai vissuto”. Egli ha cioè correttamente compreso un punto essenziale del buddhismo: Sagamoni era un uomo come tutti, non una divinità o un essere trascendente, anche se col tempo è stato divinizzato ed è divenuto oggetto di venerazione (un “oggetto”, appunto), al di là proprio dei suoi stessi insegnamenti.
Questo significa che la via della liberazione dalla sofferenza proposta dal Buddha è universale e non è riservata a uomini o donne con qualità speciali o attributi “divini”.
2 – Afferma poi che se il Buddha “fosse stato cristiano sarebbe stato un grande santo in compagnia di Nostro Signore Gesù Cristo”. Questo, oltre a costituire un esplicito riconoscimento delle qualità del Buddha e della “idolatria” buddhista, ci dice che Marco Polo, giovane mercante veneziano dell’Italia medioevale, era persona di grande sensibilità e apertura mentale – e ci dice anche che lo stesso Medio Evo non era poi così “oscuro” come è stato raccontato dal Rinascimento in poi[16]!

Per concludere, è fin troppo facile parlare oggi dei limiti della narrazione di Marco Polo a proposito del buddhismo – e non solo di questo. Effettivamente ne ha descritto soprattutto gli aspetti devozionali, tipici della religiosità “popolare”: le preghiere e le offerte agli “idoli”, le elemosine. Ha sottolineato elementi che oggi definiremmo “superstiziosi”: le pratiche magiche dei Lama, gli oroscopi, le divinazioni. Al più, si è soffermato sulla dimensione etica del buddhismo – certo di assoluta rilevanza – ed infine sulla biografia leggendaria di Sagamoni Borcan.
Non ci viene detto nulla sul senso profondo dei suoi insegnamenti, sulla liberazione dalla sofferenza, il Nirvana, né sui testi, i sutra, che in quel tempo erano già stati raccolti e in buona parte tradotti in Cina, in Tibet, a Sri Lanka. Quindi, nulla ci è stato da lui riportato a proposito della filosofia del buddhismo, della pratica della meditazione, della vacuità... Anche la rinascita ha dal suo punto di vista un significato di crescita “sociale”, che vede come termine ultimo la fusione con la “divinità” anziché la definitiva liberazione dall’esistenza ciclica condizionata.
Il monastero di Gandan in Mongolia
Come scrive M.A. Falà, Polo non è riuscito “a distinguere, al di sotto del fogliame di culti, riti e superstizioni, il vero tronco dell’albero dell’Illuminazione[17], ed effettivamente “il suo quadro delle religioni asiatiche è piuttosto confuso[18].
Ma, oltre a riconoscere, come già si è fatto, l’intelligenza curiosa di quello che, non dimentichiamo, è stato innanzitutto un abile e coraggioso mercante e viaggiatore cristiano del 1200 (e proprio il buddhismo ci insegna che la percezione della realtà è sempre condizionata, anche dai nostri ruoli sociali), è da dire anche che molto probabilmente il buddhismo che Polo ha conosciuto era proprio quello che ha descritto: un eterogeneo insieme di culti popolari, “contaminati” da pratiche tradizionali locali (il taoismo in Cina, il Bӧn in Tibet ecc.); riti e cerimoniali che da un lato potevano – e possono – soddisfare certi elementari bisogni umani, ma dall’altro possono prestarsi ad usi anche “politici”, di formazione di consenso e di controllo sociale.
Forse, come si evince in un paio di annotazioni, Polo aveva compreso che dietro le mura dei monasteri c’era qualcosa d’altro rispetto a ciò che vedeva nei templi, tra la gente, o alla corte del Khan. Non è andato a vedere, forse non ne ha sentito abbastanza il bisogno. O non gli è stato permesso di farlo. O forse – ma questa è solo fantasia – lo ha fatto, ma non ce lo ha raccontato…






[1] La cronologia qui riportata è tratta dal volume: D. Keown, Buddhismo, Ed. Einaudi pagg. 137-138
[2] Il titolo corrisponde a quello di “Imperatore”
[3] Forse la battaglia di Curzola, in Croazia
[4] Ovvero seguaci di Nestorio, patriarca di Costantinopoli deposto nel 431 in quanto sostenitore delle due distinte nature di Gesù, umana e divina (per cui Maria è Madre di Cristo, ma non Madre di Dio)
[5] Tutte le citazioni sono tratte da: Marco Polo, Il Milione, Ed. CDE su lic. Ed. ERI, pagg. 50-51. Questa edizione del Milione è la “traduzione” in italiano, ad opera della scrittrice Maria Bellonci (1902-1986), del Codice 1116, conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi
[6] M.A. Falà, Il Buddha di Marco Polo, in: Paramita n. 6/1983, pag. 28
[7] Il Milione, pag. 81
[8] Pag. 76
[9] Pag. 77
[10] Pag. 124
[11] Pag. 77
[12] Pag. 114
[13] Pag. 116
[14] Pagg. 196/198
[15] Tutt’oggi a Sri Lanka, nella città di Kandy, si trova un tempio nel quale è conservata la reliquia del sacro dente del Buddha, oggetto di venerazione e di pellegrinaggi da tutto il mondo buddhista. E ancora a Sri Lanka si trova un monte, lo Sri Pada (Piede sacro), noto anche come Adam’s Peak, anch’esso meta di pellegrinaggi per cristiani, musulmani, buddhisti e induisti, in quanto vi si trova l’impronta di un piede (lunga 180 cm.), che, a seconda di chi la venera, è considerata l’impronta di Adamo, del dio Shiva o del Buddha.
[16] Si noti che mentre gli altri periodi storici sono stati definiti con termini specifici (età antica, moderna, contemporanea ecc.), il Medio Evo è semplicemente definito come un periodo intermedio, è privo di una propria connotazione temporale
[17] M.A. Falà, Il Buddha di Marco Polo, pag. 29
[18] Pag. 28

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