venerdì 6 febbraio 2015

Il Beato Iacopo da Varagine e la strana storia del Buddha cristiano


Il Beato Iacopo da Varagine

Negli stessi anni in cui Marco Polo attraversava i deserti dell’Asia centrale per raggiungere il Catai e aveva modo perciò di conoscere la vicenda di “Sagamoni Borcan”, lo “Shakyamuni il Saggio” dei Mongoli, in Italia era in corso di redazione un’opera oggi meno nota del Milione ma altrettanto importante, che esercitò una grande influenza non sulla storia delle esplorazioni geografiche, bensì sulla letteratura religiosa e sull’arte sacra dei secoli successivi, almeno fino agli anni della Controriforma.
Si tratta della Leggenda Aurea, scritta da Iacopo (o Jacopo) da Varagine (o da Varazze) a partire dal 1260 e da lui rielaborata fino alla sua morte (1298). In essa, come nel Milione anche se in termini completamente diversi, andremo a ritrovare le tracce della vicenda del Buddha storico.
Ancora la Liguria, quindi: mentre Marco Polo raccontava in un carcere di Genova la vita di Shakyamuni, Iacopo, nella stessa Genova, negli stessi anni, narrava la medesima storia, anche se per nulla consapevole di che cosa stesse veramente parlando.

Iacopo da Varagine, conosciuto anche come Iacopo de Fazio, era nato a Varazze nel 1228 o 1229. Alcuni storici affermano invece che il luogo di nascita fosse Genova, nella quale in effetti viveva all’epoca una famiglia denominata “de Varagine” proprio per la sua origine varazzina. Si disse poi, nel XVI secolo, che il nome “Varagine” fosse in realtà “Voragine” e si riferisse alla vorago di sapienza di cui Iacopo dette prova nei suoi scritti. Ma qui siamo nel regno delle fantasie etimologiche…[1]
Ciò che la storia dice è che il giovane Iacopo nel 1244, a Genova, entrò a far parte dell’Ordine dei Frati Predicatori (detto dei Domenicani, in quanto fondato da Domenico di Guzmàn agli inizi del ‘200). All’interno dell’Ordine compì con successo la sua formazione, fino a che arrivò a ricoprire l’incarico di priore della provincia di Lombardia (che comprendeva tutta l’Italia settentrionale). Fu priore dal 1267 al 1286, tranne una breve interruzione.
Nel 1292 il papa Niccolò IV lo nominò Arcivescovo di Genova, e tale rimase fino alla morte. In quanto arcivescovo esercitò una intensa attività: si dedicò alla riorganizzazione del clero genovese, e sul piano politico lavorò alla pacificazione tra le varie famiglie genovesi – i Fieschi, i Grimaldi, i Doria, gli Spinola – divise tra guelfi e ghibellini e costantemente impegnate in lotte intestine che provocavano in città vere e proprie stragi.
Nel 1295 si recò a Roma presso il papa Bonifacio VIII, che lo aveva chiamato per cercare di prolungare l’armistizio tra Genova e Venezia, con l’obiettivo di ritrovare l’unità tra i cristiani e facilitare le guerre per la riconquista della Terrasanta. In quello stesso anno conobbe una grave sconfitta politica: la tregua tra le fazioni genovesi si ruppe e scoppiarono gravi incidenti che portarono all’incendio della cattedrale di San Lorenzo.
Iacopo morì nel 1298, due mesi prima della battaglia di Curzola tra Genovesi e Veneziani, durante la quale, forse, fu catturato proprio Marco Polo.
Molti secoli dopo, nel 1816, anche a seguito della venerazione di cui era oggetto, fu beatificato da papa Pio VII.

La Leggenda Aurea

Ma, come si è accennato, ciò che qui interessa è la maggiore opera letteraria di Iacopo, la Leggenda Aurea (in latino, Legenda), nota anche come Legenda sanctorum, Liber passionalis, Vitae Sanctorum ecc.
È un testo, scritto originariamente in latino proprio per favorirne la diffusione, che si compone di circa 180 racconti dedicati alle vite dei santi [2] e alle feste liturgiche, “disposti, e questo costituisce un’innovazione rispetto a opere dello stesso genere, secondo l’ordine del calendario liturgico[3].  Le vite dei santi, dei martiri, delle vergini, sono quindi inserite “nel gran quadro dell’anno ecclesiastico di cui [Iacopo] si sofferma a considerare ogni festività, cercando di renderne accessibile a tutti il significato[4].
Per comprendere bene lo spirito dell’opera è necessario ricordare che il termine “leggenda” del titolo non significa qui “una realtà in cui l’elemento soggettivo si è inserito al punto da trasformarla. Leggenda significava semplicemente storia da leggersi per la festa del santo[5].
Come già detto, l’opera ebbe da subito una grande diffusione: si sa per certo che già nel 1275 era ben nota a Parigi, e solo il testo della Bibbia fu più tradotto e diffuso in Europa in quel tempo. Ancora oggi ne rimangono più di 1200 manoscritti. Alla fine del XIII sec. fu tradotta in catalano, poi in lingua d’oc, e se ne conoscono 11 traduzioni diverse in francese ed altre in inglese e nelle lingue germaniche nei secoli immediatamente successivi [6].
In ambito artistico, essa diede un grande impulso alla rinascita delle arti figurative, liberando l’iconografia dei santi dagli influssi orientali: “sciolti dall’estasi orientale i santi dovevano vivere dinanzi agli occhi dei fedeli le vicende della loro vita per indurli a una pia imitazione. [..] Vetrate dipinte di cattedrali gotiche, bassorilievi, quadri e predelle si popolarono dei fatti narrati dal beato Iacopo e in pieno Quattrocento troviamo un altro frate dell’ordine dei predicatori, di profonda e ingenua fede come Iacopo, che del beato confratello rivisse il mondo poetico e lo trasformò in figura e colore: il beato Angelico[7].
A partire dal 1500 la Leggenda cadde in discredito: gli eruditi e i seguaci della Controriforma preferirono allora “fermare l’attenzione sulle incongruenze cronologiche, storiche e geografiche piuttosto che discendere fino nel cuore dell’opera[8], contribuendo così “al suo declino come testo religioso sia nella predicazione sia nella devozione privata[9].

Dal Buddha “buddhista” al Buddha islamico al Buddha cristiano

Da quanto detto sopra a proposito della Leggenda Aurea è facile comprendere i legami tra il testo di Iacopo da Varagine e un altro testo fondamentale della cristianità, il Martirologio Romano, la cui prima versione ufficiale risale al XVI secolo, il quale, sia chiaro, deve essere considerato un libro liturgico, e non un semplice elenco completo dei santi e dei beati del cristianesimo.
Come si legge nel sito www.paginecattoliche.it:
 “Nel corso dei secoli, fra i libri per le celebrazioni liturgiche per rendere degnamente culto alla santissima Trinità, come si conviene, fu annoverato il Martirologio, la cui natura liturgica si pose via via in evidenza col passare del tempo.
 Le relazioni fra gli antichissimi Calendari liturgici e il Martirologio, con l'aggiunta di opportune indicazioni pratiche dei reciproci nessi fra loro e delle celebrazioni dei divini misteri, crebbero sensibilmente fino alla fisionomia odierna, in cui sono manifesti soprattutto la finalità e l'uso liturgici.
 Nel corso dei secoli, il Martirologio è stato riveduto numerose volte e recentemente la stessa riforma voluta dal sacro Concilio Vaticano II, e insieme la promulgazione degli altri libri liturgici riformati, sollecita che anche il Martirologio, dopo una doverosa investigazione storica, sia redatto in armonia con gli altri libri del rito romano[10].

Ma cosa c’entra il Buddha Shakyamuni in tutto questo?

Se si consulta proprio il testo del Martirologio, in una versione probabilmente recente anche se successivamente soggetta a revisione, alla data del 27 novembre compaiono, tra molti altri, anche i nomi di due santi di cui parleremo a lungo, Barlaam e Josafat [11]:
 Die 27 Novembris. Quinto Kalendas Decembris. […] Apud Indos, Persis finitimos, sanctorum Barlaam et Josaphat, quorum actus mirandos sanctus Joannes Damascenus conscripsit”  [12], ovvero “27 novembre. Quinto alle calende di dicembre. […] Nell'India, ai confini della Persia, i santi Barlaam e Giosafat, le cui opere meravigliose furono descritte da san Giovanni Damasceno” [13].

Chi erano i santi Barlaam e Josafat (o Ioasaf o Giosafat)?
Barlaam e Ioasaf

Secondo il Martirologio, fu Giovanni Damasceno (cioè nato a Damasco), teologo siriano del VII-VIII secolo, a narrarne le gesta, in lingua greca.
Anche Iacopo da Varagine, nella parte finale della sua opera maggiore, narra per esteso la vita dei due santi.
Lì racconta di un re di nome Avennir il quale, “in un tempo in cui l’India era piena di cristiani e di monaci [..] cominciò a perseguitare i cristiani[14].
Il re Avennir non aveva figli: ebbe alfine un figlio di una bellezza meravigliosa, che fu chiamato Josafat. Il re in questa occasione fece radunare una moltitudine di gen­ti perché sacrificassero in onore della regale nascita; riunì poi sessanta astrologhi e li interrogò sui destini futuri del fanciullo. Tutti risposero che sarebbe stato molto potente e ricco, ma il più saggio degli indovini aggiunse: «Questo fanciullo che ti è nato sarà ricco e potente in un regno molto migliore del tuo. Infatti, se non mi sbaglio, sarà uno dei principi di questa religione cristiana che ora tu perseguiti». Così parlò il saggio per divina ispi­razione.
Nell'udire queste parole il re molto si spaventò e fece costruire fuori della città un magnifico palazzo e lo assegnò al figlio come dimora. Gli dette per compagni bellissimi giovani a cui era stato ordinato di non parlare mai né di morte, né di vecchiaia, né di malattie né di miseria e di qualsiasi altra cosa che potesse suscitare tri­stezza, perché l'animo del fanciullo sempre occupato in cose piacevoli mai avesse occasione di pensare al futuro. Se per caso un amico di Josafat si ammalava, il re lo fa­ceva sostituire con un altro. Ma soprattutto Avennir or­dinò che mai, in presenza del figlio, si pronunciasse il nome di Cristo”.
Narra poi che Josafat ottenne il permesso di uscire dal palazzo, e che durante tali uscite incontrò, nonostante le precauzioni prese dal padre, un lebbroso e un cieco, e poi “un vecchio con la faccia tutta rughe, con la schiena curva e la bocca senza denti, che non riusciva a parlare senza balbettare”. E venne quindi a sapere dalla sua scorta che la fine di quell’uomo, e di tutti gli uomini, sarebbe stata la morte, che sarebbe sopraggiunta – interessante notazione, per l’epoca – al massimo “a ottanta o cento anni”.
In seguito, il giovane Josafat conobbe un monaco eremita di nome Barlaam, il quale si era recato in città travestito da mercante, in quanto lo Spirito Santo lo aveva messo a conoscenza della storia di Josafat. Barlaam gli diede insegnamenti per mezzo di parabole, gli parlò “della creazione del mondo, della incarnazione, passione e resurrezione del Figlio di Dio, del giudizio finale e della retribuzione dei giusti e dei malvagi” e degli errori degli idolatri. Poi “battezzò il figlio del re, lo istruì in tutte le verità della fede e, dopo averlo baciato, ritornò nel deserto”.
Infine, dopo una lunga serie di inutili tentativi di re Avennir (per mezzo di magie, lusinghe, ricchezze, compagnie femminili, una bellissima promessa sposa…) per convincere il figlio, ormai convertito al cristianesimo, a non ritirarsi in eremitaggio, anche Josafat un giorno partì, donò gli abiti regali ad un povero e si rivestì di stracci. Raggiunse la grotta dove viveva Barlaam; “visse nel deserto per trentacinque anni e poi si addormentò nel Signore. Il suo corpo fu sepolto con quello di Barlaam”, il quale era già spirato diversi anni addietro.
La parabola del liocorno e del miele

Se ancora ve ne fosse bisogno per svelare l’arcano che si nasconde nella storia, si può citare per esteso una delle parabole di Barlaam: “Coloro che desiderano i piaceri materiali e permettono che le loro anime moiano di fame, sono simili a un uomo che fuggendo dinanzi a un liocorno cadde in un precipizio. Mentre stava precipitando si attaccò con le mani a un arbusto e pose i piedi su un appoggio sdrucciolevole. Ed ecco che vide due topi, uno bianco e uno nero, rodere le radici dell'arbusto a cui stava attaccato e in fondo al­l'abisso un drago terribile, spirante fiamme, con la bocca spalancata per il desiderio di divorarlo. E su l'appoggio dove teneva i piedi vide quattro vipere che sollevavano la testa. Ma ecco che alzando gli occhi scorse qualche goccia di miele stillar dai rami dell'arbusto; allora, dimentico del pericolo, si abbandonò tutto al piacere di gustare quel miele. Orbene il liocorno è la morte che sempre insegue l'uomo, il baratro è il mondo pieno di ogni male; l'ar­busto è la nostra vita, le cui radici incessantemente ven­gono corrose dal giorno e dalla notte come da due topi bianchi e neri. L'appoggio con le quattro vipere è il corpo composto di quattro elementi che, col loro disordine, af­frettano la dissoluzione del corpo stesso; il drago terri­bile è la bocca dell'Inferno che desidera inghiottire tut­ti; il miele che stilla dall'arbusto rappresenta le vane gioie del mondo che seducono l'uomo e gli fanno dimen­ticare il suo vero destino”.
Ricorda qualcosa? Se si apre il famoso libretto delle 101 storie zen, si legge al numero 18: “In un sutra, Buddha raccontò una parabola: Un uomo che camminava per un campo si imbatté in una tigre. Si mise a correre, tallonato dalla tigre. Giunto a un precipizio, si afferrò alla radice di una vite selvatica e si lasciò penzolare oltre l'orlo. La tigre lo fiutava dall'alto. Tremando, l'uomo guardò giù, dove, in fondo all'abisso, un'altra tigre lo aspettava per divorarlo. Soltanto la vite lo reggeva. Due topi, uno bianco e uno nero, cominciarono a rosicchiare pian piano la vite. L'uomo scorse accanto a sé una bellissima fragola. Afferrandosi alla vite con una mano sola, con l'altra spiccò la fragola. Com'era dolce![15].

A questo punto le maschere sono cadute: è più che evidente che il santo indiano Josafat raccontato dal Beato Iacopo altri non è che un Buddha Shakyamuni inconsapevolmente (?) cristianizzato e che quindi fino a pochi anni fa veniva ricordato nel calendario cristiano ogni 27 novembre.
Ma come è potuto avvenire che la figura del Buddha, vissuto nell’India del VI sec. a.C., si sia trasformata in quella di un santo cristiano, sia pure indiano?
In che modo il nome del Buddha (Siddharta Gautama Shakyamuni) è divenuto Josafat/Giosafat, lo stesso nome del biblico re di Giuda (870 - 846 a.C), figlio di Asa? [16]
Se Josafat è il Buddha, chi è Barlaam?
Quale è stata la fonte letteraria alla quale Iacopo attinse per narrare la vicenda di Barlaam e Ioasaf?

Si è già visto che il Martirologio ne indica l’autore in Giovanni Damasceno, il teologo siriano del VI-VII secolo. Ma non è evidentemente una spiegazione esauriente, in quanto si pone subito la questione delle fonti dello stesso Giovanni.
È perciò necessario risalire ulteriormente nel tempo, a partire dall’epoca di Iacopo, nella quale il “romanzo” era già popolarissimo, fino all’India dei primi secoli dell’era volgare, durante i quali iniziarono a comparire i primi testi “organici” che raccontavano la vita del Buddha Shakyamuni, i quali, come già visto altrove, non erano semplici biografie o agiografie, ma opere da studiare e meditare, in quanto ricche di insegnamenti pratici.
In particolare, il testo dal quale si sviluppò la vicenda che portò alla nascita del “Buddha cristiano” è il Lalitavistarasutra (Il discorso dello sviluppo dei giochi), scritto in sanscrito e tradotto per la prima volta in cinese nel 308 d.C. e in tibetano nell’VIII secolo [17]. Appartiene pertanto alla tradizione del buddhismo Mahayana; è composto da 27 capitoli, e narra la prima parte della vita del Buddha, dalla nascita fino al primo sermone a Sarnath, presso Varanasi.
In effetti, la vita del Buddha raccontata nel Lalitavistara e quella di Ioasaf sono esattamente le stesse, con coincidenze non solo narrative ma addirittura letterali tra la versione sanscrita e quella greca di Giovanni Damasceno, come notò il grande orientalista tedesco Max Müller (1823 – 1900) [18].
Ma il primo “svelamento” dell’arcano risale a diversi secoli prima dell’intervento di Max Müller: a margine di un manoscritto veneziano del 1446 del Milione, nella parte su Ceylon dedicata alla vita di Sagamoni Borcan, si trova infatti una anonima annotazione: “Questo asomeia alla vita de san Ioasaf, lo qual fo fiolo del re Avenir de quelle parte de India, e fo convertido alla fe christiana per lo remito Barlam, segondo chome se legie nella vita e llegenda di sancti padri”. [19]

I passaggi del testo tra l’India e il Medio Oriente e poi l’Occidente furono inoltre ben più complessi di quelli immaginati dal Müller. Il tramite corretto, individuato da alcuni studiosi, è stato esaurientemente approfondito e descritto dalla storica italiana Silvia Ronchey (1958, figlia di Alberto) [20], ed è quello iranico-islamico-georgiano.
La vita leggendaria del Buddha, nella versione narrata nel Lalitavistara, venne conosciuta dalle comunità cristiane dell’Iran orientale e dell’Asia centrale, che vivevano a contatto con i buddhisti e le altre tradizioni religiose (manichei, zoroastriani…). Di lì, attraverso la mediazione islamica, approdò al mondo bizantino, un mondo cristiano e multiculturale. Il passaggio dal Buddha indiano a quello cristiano avvenne quindi attraverso un “Buddha islamico”, grazie all’assimilazione degli elementi indo-buddhisti da parte del misticismo islamico, nelle sue componenti sufi. Da una prima traduzione del testo sanscrito in persiano, si giunse nell’VIII secolo a due opere in arabo, il kitab (libro) Kamal-ad-din e il kitab Bilawar wa Budasf, che raccontavano entrambe la vita del Buddha in versione islamica. Ed entrambe introducevano accanto alla sua la vita di un maestro, l’eremita Bilawhar.
Nella prima, il Buddha non veniva chiamato Budasaf, bensì Iudasaf. È da notare che entrambi i termini non derivano dall’aggettivo buddha, bensì da bodhisattva, in sanscrito “essere (sattva, da: sat, il verbo essere) del Risveglio (bodhi, dalla radice budh, risvegliarsi, da cui anche buddha = risvegliato), uno dei termini più frequenti con il quale è designato il Buddha. Da qui, nel corso del tempo e dello spazio, si giunse a Ioasaf, Joasaf, fino all’erronea identificazione col nome biblico di Giosafat.
Ed anche il nome del maestro del bodhisattva, Bilawar, che diverrà Barlaam, trae origine da un termine sanscrito, bhagavan (o bhagavat), usato per rivolgersi ad una persona esprimendo grande rispetto e venerazione. Ed è anch’esso un termine che designa molto spesso la figura del Buddha (sovente lo si trova tradotto con “beato”), per cui si può correttamente dedurre che Barlaam e Ioasaf siano due figure distinte che nascono però dallo sdoppiamento di un unico “personaggio”, il Buddha Shakyamuni.
Dai due testi arabi “dipende direttamente un’opera in lingua georgiana, che ne è la fedele traduzione: il Balavariani, il libro che fa da cerniera fra le tradizioni “orientali” della vita del Buddha e quelle cristianizzate, di cui è capostipite[21], risalente all’epoca della dominazione araba in Georgia (tra il VII e il X secolo).
S. Eutimio
Il Balavariani venne poi tradotto dal georgiano in greco ad opera di Eutimio (955-1028), un georgiano che, insieme col padre Abulherit (poi divenuto Giovanni), si era ritirato a vita monastica sul monte Athos, nel nuovo monastero di Iviron, cioè degli Iberi, antico nome dei Georgiani, destinato proprio ad essi. Sia Giovanni che Eutimio vennero in seguito santificati.
A partire da questa versione, la storia di Joasaf diverrà uno dei libri più diffusi e tradotti del Medio Evo: accanto all’adattamento in latino del Beato Iacopo furono redatte versioni nei vari volgari europei: provenzale, francese, spagnolo, tedesco, lingue scandinave ecc.; verso est, il testo di Eutimio venne tradotto nuovamente in arabo, nonché in ebraico, armeno, siriaco ed etiopico [22].
In lingua italiana è degna di menzione una versione in versi ad opera del senese Neri di Landoccio dei Pagliaresi (1350 circa-1406), seguace e segretario personale di Santa Caterina. La vicenda si trasmise anche al Decameron di Giovanni Boccaccio (1313-1375), laddove, nell’introduzione alla quarta giornata, si narra la storia di un uomo che, rimasto vedovo, cerca di trattenere presso di sé in ogni modo il suo unico figlio.
Il Barlaam e Ioasaf divenne inoltre oggetto di ballate e di sacre rappresentazioni pubbliche nelle piazze non solo italiane. Nel ‘400 fiorentino saranno addirittura Lorenzo il Magnifico e suo padre Piero de’ Medici ad interpretare, mascherati, i ruoli di Ioasaf e del re Abenner, durante una sacra rappresentazione!
In Inghilterra, nel XV secolo, la Leggenda Aurea fu adattata in lingua inglese ed approdò così al teatro di Shakespeare (nel Mercante di Venezia).
In Spagna, Lope de Vega (1562-1635) ne scrisse una versione che influenzò profondamente il capolavoro di Pedro Caldéron de la Barca, La vida es sueño (La vita è sogno, 1653), nella quale si ripropone il motivo ricorrente del figlio rinchiuso dal padre in un palazzo, una torre, una caverna…
Fu grazie ai Portoghesi che il cerchio Oriente-Occidente-Oriente si chiuse: alla fine del ‘500 navigatori ed esploratori portarono con loro la vita del Buddha cristiano in Cina, e – ironia della storia – i gesuiti portoghesi proprio per mezzo di una versione ridotta di quel libro cercarono di convertire i buddhisti giapponesi al cristianesimo. Così l’Estremo Oriente poté ri-conoscere vicende che da secoli facevano parte della loro tradizione.
In Russia la storia di Barlaam e Ioasaf era giunta, attraverso la grande tradizione ortodossa, fino a Tolstoj, il quale, nella sua Confessione (1882), affermò che, insieme alle vite dei santi e ad altri testi, la vicenda “del principe Joassaf (la storia di Buddha)” – Tolstoj era ben consapevole di che cosa si trattasse in realtà – gli aveva rivelato “il senso della vita[23].
E si può forse dire, per arrivare ai nostri giorni, che “l’ultimo Ioasaf è il Siddhartha di Herman Hesse[24], l’opera più nota dello scrittore tedesco premio Nobel per la letteratura nel 1946.

Ci piace infine rendere grazie alla studiosa Silvia Ronchey, che al Barlaam e Ioasaf ha dedicato anni di approfonditi studi, con una sua citazione su quanto il “romanzo”, in tutte le sue versioni, ci può tuttora insegnare. Il libro – ella dice – è un libro che guarisce: “Cura, ad esempio, i nostri discorsi sul presunto scontro di civiltà che dalla fine del xx secolo, dopo la caduta dei due imperi eredi di Bisanzio – l’impero ottomano all'inizio del Novecento, quello zari­sta, poi sovietico, alla sua fine –, sembra dominare il mon­do attuale [25]. Le faglie di attrito, le aree incandescenti del conflitto etnico [che] oggi si chia­mano Kurdistan, Cecenia, Iraq, Iran, Afghanistan, Paki­stan: [sono] le stesse zone, a cavallo tra Asia e Europa, lungo cui si è snodata la nostra vicenda, a dimostrazione che invece queste civiltà erano state in fervido, fruttuoso contatto con Bisanzio. L'islam e il cristianesimo si erano parlati spesso a vicenda e trasmessi sapienza: come nel caso del Barlaam e Ioasaf, che attraverso la mediazione araba aveva portato l'Occidente a conoscenza della storia del bodhisattva. [...] Il Barlaam e Ioasaf, non solo con la sua storia ma già nel­la storia della sua storia, cura la nostra logica. Il monstrum interconfessionale che ci consegna è l'epifania di un passa­to che garantisce la composizione degli scontri. Un passa­to bizantino fatto di ortodossia, ma anche di convivenza e mediazione religiosa, che col suo stesso esistere ci ricorda come tra civiltà siano invece possibili, spesso, degli incontri[26].




Note

[1] Il nome Varagine, da cui Varazze, significa probabilmente “luogo dal quale vengono varate le navi”
[2] Tra le vite narrate dal Beato si ricordano ad esempio quelle di S. Tommaso, i Ss. Cosma e Damiano, S. Giorgio, le Undicimila Vergini, S. Pietro, S. Lucia, S. Petronilla, S. Prassede, i Quattro santi coronati, i Sette santi addormentati, S. Vedasto ecc.
[3] C. Casagrande, alla voce Iacopo da Varagine del Dizionario Biografico degli Italiani, in:
http://www.treccani.it/enciclopedia/iacopo-da-varazze_%28Dizionario_Biografico%29/
[4] C. Lisi, Prefazione a: Jacopo da Varagine, Leggenda aurea, Ed. Libreria Fiorentina, pag. XIV
[5] Ibid, pag. XI. È la traduzione letterale del gerundivo neutro plurale del verbo latino legere, per cui: cose che devono essere lette
[6] La versione qui utilizzata è quella tradotta dal latino, a partire da un’edizione stampata a Venezia nel 1483, a cura di Cecilia Lisi, pubblicata in due volumi dalla Libreria Editrice Fiorentina nel 1985
[7] Pag. XV. Si tratta di Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro (1395 - 1455), detto il Beato Angelico o Fra' Angelico,
[8] Ibid, pag. X
[9] Casagrande, cit.
[10] http://www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&sid=1126
[11] Attualmente il 12 e il 19 novembre vengono ricordati nel calendario, separatamente, san Giosafat e san Barlaam, ma non sono quelli di cui parlano Giovanni Damasceno e Iacopo da Varagine
[13] Il testo completo tradotto è leggibile nel sito: http://www.totustuus.it/martiri/martire_1127.htm. Per i santi attualmente ricordati alla data del 27 novembre si veda: http://www.santiebeati.it/11/27/
[14] Le citazioni sono tratte dall’edizione della Leggenda aurea citata sopra (note 4 e 6), pagina 815 e seguenti
[15] N. Senzaki – P. Reps, 101 storie zen, Ed. Adelphi, pag.35
[16]Asa si addormentò con i suoi padri; fu sepolto nella città di Davide suo antenato e al suo posto divenne re suo figlio Giòsafat” (1 Re, 15, 24)
[17] A tutt’oggi non risulta disponibile una traduzione italiana del Lalitavistarasutra.
[18] Cit. in Il Buddha bizantino, saggio introduttivo di Silvia Ronchey al volume: Cesaretti – Ronchey (a cura di), Storia di Barlaam e Ioasaf – La vita bizantina del Buddha, Ed. Einaudi, pag. XXX e segg.
[19] Ibid, pag. CI-CII
[20] Ibid, pag. IX e segg.
[21] Ibid, pag. XVIII-XIX
[22] Le informazioni seguenti sono tratte da Il Buddha bizantino, cit.
[23] La citazione di Tolstoj è leggibile per intero qui:
 http://www.liberliber.it/mediateca/libri/t/tolstoj/la_confessione/pdf/tolstoj_la_confessione.pdf
[24] Ronchey, Il Buddha bizantino cit., pag. XLVII
[25] Più che probabile qui il riferimento al discusso volume di Samuel Huntington Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale pubblicato in Italia da Garzanti nel 1997, secondo il quale “le comunità culturali stanno sostituendo i blocchi della Guerra Fredda e le linee di faglia tra civiltà stanno diventando le linee dei conflitti nella politica globale
[26] Ibid, pag. CVII






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