venerdì 20 febbraio 2015

Sir Edwin Arnold e "La luce dell’Asia"


È stato detto che “nella cultura inglese influenzata dal buddhismo si riflettono le due tendenze contrapposte dell’orientalismo occidentale: la strumentalizzazione di tipo colonialistico, e di per sé mistificatoria, e il desiderio di conoscenza, frutto di empatia e curiosità intellettuale[1]. Un esempio di quest’ultimo tipo di atteggiamento verso il buddhismo lo si trova nella figura di Sir Edwin Arnold. Egli non è un autore di rilievo nella storia della letteratura inglese, anzi non lo si può considerare un poeta “di professione”.
Nato nel 1832, dopo la laurea conseguita ad Oxford e dopo aver insegnato a Birmingham si recò in India e lì diresse il Sanskrit College di Poona. Nel 1861 tornò in Inghilterra e si dedicò al giornalismo, divenendo la firma più importante del Daily Telegraph, dove lavorò per 40 anni. Morì a Londra nel 1904. Fu traduttore di diversi testi filosofici e letterari indiani, ma è noto soprattutto per un suo poema pubblicato nel 1879, La Luce dell’Asia, ovvero La Grande Rinuncia, un testo che ebbe all’epoca un grande successo in patria e negli Stati Uniti, anche se oggi è conosciuto solo nella cerchia degli studiosi del buddhismo.
Sir Edwin Arnold
 Nell’opera, un poema in 8 libri, l’A. ha cercato “di dipingere la vita ed il carattere e d’indagare la filosofia di quel nobile eroe e riformatore che fu Gautama, Principe d’India, il fondatore del Buddhismo[2].
Suo intendimento è quello di presentare la vita del Buddha e il suo insegnamento liberandoli dalle “corruzioni, [dalle] invenzioni e [dalle] false interpretazioni[3] che inquinano i testi buddhisti. Secondo Arnold “le stravaganze che sfigurano la memoria e la pratica del Buddhismo sono da imputarsi a quella inevitabile degradazione che il clero spesso infligge alle grandi idee affidate al suo ministerio. Il potere e la sublimità della dottrina originale di Gautama devono essere considerati alla stregua della loro influenza, e non da quello che ne dicono gli interpreti, non da quella innocente, ma pigra, cerimoniosa Chiesa che è sorta sulle rovine delle fondamenta della fratellanza buddhistica o Sangha[4].
Per fare questo utilizza un piccolo stratagemma letterario, ovvero fa parlare un devoto buddhista: “ho messo il mio poema in bocca a un buddhista, perché per apprezzare lo spirito del pensiero asiatico esso deve essere considerato dal punto di vista orientale[5].
L’opera di Sir Arnold – della quale Gandhi disse che una volta iniziata non aveva più potuto smettere di leggerla – si inserisce a pieno titolo nell’atteggiamento, tipico degli intellettuali dell’età vittoriana (1837-1901), di una “autentica fascinazione per la figura del Buddha, che sottopongono a un trattamento epicizzante, in conformità con un’idea della storia come biografia di personalità illustri[6], in antitesi quindi “con l’immagine di un’India incolta, moralmente degenerata, socialmente immobile e dunque bisognosa della rinascita culturale promossa dall’impero britannico[7].
Già nella Prefazione l’A. sembra proporre l’idea che l’India non sia un paese privo di cultura non tanto grazie alla sua tradizione millenaria, bensì solo per l’influenza del buddhismo, sebbene questo fosse ormai sparito dal suo luogo d’origine: “L’India per se stessa potrebbe bene includersi nel magnifico impero di fede, perché sebbene non faccia professione di Buddhismo nella sua terra d’origine, l’impronta dei sublimi insegnamenti di Gautama è profonda nel moderno Brahmanesimo e le più caratteristiche abitudini e considerazioni degli Hindù sono chiaramente dovute alla benefica influenza dei precetti di Buddha[8].

La forma del poema ricalca taluni elementi tipici del Romanticismo: il protagonista, come espressamente affermato dall’A., è un eroe all’interno di un dramma. Ama la bellezza, non disdegna affatto i piaceri della vita, ma è un inquieto, un essere insoddisfatto nonostante le (e a causa delle) protezioni erette dal padre per impedire al giovane principe di conoscere il mondo con le sue sofferenze.
A tale proposito si leggano questi passi del poema di Arnold: “Ogni cosa [nella campagna in primavera] parlava di pace e d'abbondanza e il principe ne gode­va. Ma, guardando profondamente, egli vide le spine che cresco­no sulle rose della vita: vide l'abbronzato lavoratore sudare per la sua mercede e lottare penosamente per amore alla vita, vide come patiscono i buoi, dai grandi occhi, all'ardore del sole che ne brucia i fianchi vellutati. Osservò come la lucertola si nutre della formica, il serpente di quella, per essere ambedue divorati dall'avvoltoio. Vide il nibbio che ruba la preda all'airone, il cac­ciatore che uccide gli usignuoli e questi che divorano le vario­pinte farfalle. Notò, infine, come ognuno uccide un uccisore ed a sua volta viene ucciso, poiché la vita vive della morte, e così il bello apparente cela una vasta, selvaggia, crudele opera di cospi­razione e di mutuo assassinio, dal verme fino all'uomo che uc­cide i suoi simili. […]
È questo, egli disse, con profondo angoscioso sospiro, è que­sto dunque il mondo felice che mi si promette? Ahi! con quanto sudore è acquistato il pane del contadino! Come è duro il servag­gio dei buoi! Nei boschi quale guerra feroce fra deboli e forti! Nell'aria quale battaglia furiosa! Nell'acqua stessa non v'è pace! Lasciatemi solo per meditare su quanto mi avete mostrato[9].

Il tema della rinascita poi, così come proposto da Arnold, “enfatizza il motivo del rovescio di fortuna profondamente radicato nella sensibilità protestante[10] (si rammenti anche come Marco Polo, nel Milione, avesse parlato dello stesso tema con un simile approccio: il legame tra storia sociale della persona e rinascite).
D’altra parte, già verso la metà del 1800 la figura del Buddha era stata messa a confronto con quella di Lutero: il buddhismo sarebbe stato per l’hinduismo ciò che il protestantesimo era stato per il cattolicesimo; il Buddha come “riformatore” del brahmanesimo. Ma in realtà tale raffronto è stato spesso criticato dagli studiosi, in quanto il buddhismo aveva rivolto nei confronti della tradizione hinduista una critica ben più radicale di quella luterana verso il cattolicesimo, ad esempio rifiutando, e non solo da un punto di vista teorico, la fondamentale dottrina dell’atman. Ed è proprio su questo punto che il poema di Arnold dimostra la sua maggiore debolezza: gli insegnamenti del Buddha sul non-sé (l’an-atman, la vacuità dei fenomeni, shunyata) vengono lasciati nel vago, in quanto la nozione di un sé privo di esistenza intrinseca sarebbe stata in netto contrasto con la tradizione cristiana (cattolica e protestante) e occidentale in genere, nella quale l’individuo come tale, l’ego, non è messo in discussione nella sua sostanzialità, né dal punto di vista filosofico o teologico, né da quello politico ed economico, dove è anzi sempre più centrale con l’affermarsi della figura del produttore-consumatore di merci (che proprio in quel secolo trova la sua origine).
In definitiva, con Arnold si assiste nuovamente – anche se in forme completamente diverse –ad una cristianizzazione del Buddha, come già avvenuto col romando di Barlaam e Joasaf. La sua lettura del buddhismo è essenzialmente di carattere etico, l’insegnamento del Buddha si riduce ad una critica dell’egocentrismo umano, dei comportamenti egoistici; una critica “che non tocca la dimensione filosofica e metafisica[11], che non arriva cioè al cuore dell’approccio buddhista al problema della sofferenza, della sue vere cause e della liberazione da essa.
Nel poema, il Buddha diviene così “un ideale gentlemen vittoriano caratterizzato da integrità [e] comprensione umana[12].
La conferma di quanto detto si trova nel libro VIII del poema, dedicato ad una necessariamente sintetica esposizione dell’insegnamento buddhista. Dopo aver esortato gli ascoltatori allo studio della dottrina del karma, il Buddha afferma: “Non dite ‘io sono’, ‘io ero’, ‘io sarò’. Non crediate di passare di dimora in dimora corporea, come viandante che ricorda o dimentica se fu bene o male alloggiato. Il compendio, l’essenza della recente ultima vita ritorna nuovamente nell’Universo, nel Tutto. Si forma di nuovo la sua abitazione, come il baco da seta, e vi dimora[13]. Ma nessuno spazio viene poi dato al tema della non-sostanzialità dell’io, e il discorso prosegue sulla scia di una esposizione del karma da un punto di vista esclusivamente moralistico, fondato sul binomio – di impronta cristiana – di colpa e merito.
Lo stesso accade poco oltre, nell’esposizione della seconda Nobile Verità: “Vedete un Io falso, nel centro, e conformate ad esso il mondo[14], ma il discorso si ferma ancora qui, senza dire altro su quella falsa visione dell’io.
Ugualmente, l’ignoranza, che è fondamentalmente ignoranza della vera natura dei fenomeni, acquista una valenza quasi esclusivamente etica, perdendo il suo senso metafisico: “Che cosa vi trattiene, o fratelli [dal seguire la legge dell’amore]? Le tenebre che nascono dall’ignoranza. Guidati da esse, voi prendete per vero l’inganno: anelate al possesso, e ottenendo, vi aggrappate al piacere che poi genera dolore[15].

Infine, ancora dal punto di vista della forma letteraria, è interessante la lettura, che qui si propone per intero, di un passo del libro V, nel quale sono descritte nel dettaglio le pratiche ascetiche di taluni yogi indiani, con i quali Siddhartha inizia a praticare dopo aver abbandonato il Palazzo.
È particolarmente interessante il fatto che vengono qui ripresi i temi e i toni della letteratura gotica (Frankenstein di Mary Shelley del 1818, Il vampiro di John William Polidori del 1819, e poi Edgar Allan Poe e Louis Stevenson, fino a Conan Doyle):
Nel mezzo del tranquillo boschetto di Ratnagiri, al di là della città giù nelle caverne, dimoravano quelli che ritenevano il corpo qual nemico dell'anima, la carne quale bestia pericolosa che si deve tenere in ceppi e domare col dolore, finché sia an­nientato il senso del soffrire, fin quando i nervi fiaccati non ri­sentano più le torture!
Jogis e Brahmacharie, Bhikshus erano i capi di una sparuta e lugubre genia di eremiti penitenti. Taluni restavano con le brac­cia levate in alto finché, prive di sangue e consunte, le articola­zioni si disfacevano e quelle braccia scheletrite sporgevano dalle spalle magre come un morto ramo biforcuto da un tronco del­la foresta. Altri tenevano serrate strettamente le mani, con tan­ta forza e così lungamente che le unghie crescevano come chio­di attraversando le palme delle mani marcite. Ve n'erano di quelli che camminavano coi sandali riempiti di spine. Taluni, con ciottoli acuminati, si pestavano e tagliuzzavano fronte e pet­to e anche, e poi bruciavano al fuoco le ferite, bucavano con spi­ne le loro carni, o con un ferro a punta s'imbrattavano con fan­go e cenere, e avviluppando le loro ossa in stomachevoli cenci di cadaveri, strisciavano al suolo. Se ne vedevano altri fermarsi dove fumavano i roghi e poi s'accoccolavano nel fango, presso ca­daveri circondati da avvoltoi che stridevano intorno per divorar­li. Altri invocavano cinquecento volte al giorno il nome di Shi­va, avviticchiandosi al collo bruciato dal sole e ai magri lombi nidiate di vipere velenose e sibilanti. E negli spasmi convulsi es­si torcevano il piede e lo stiravano in su fino alle cosce.
Cosi erano riuniti in lugubre compagnia! Dall'ardore del so­le il loro cranio era ricoperto di bolle, la vista indebolita, i ten­dini e i muscoli raggrinziti, i visi cerei scarni e deformati, come di uomini morti da cinque giorni. Qui strisciava a fatica nella polvere uno che, da mezzodì a mezzodì, contava mille granelli di miglio e mangiava granello a granello, con pazienza da mo­rirne di fame, e così s'adusava alla morte. Ve n'erano anche di quelli che mescolavano foglie amare nel cibo, per tormentare il palato. Vedevasi perfino un santo che si era mutilato, gemebon­do, cieco, muto e privo di sesso. Lo spirito, essi pensavano, di­struggeva la carne per gloriarsi di tanto martirio e della felicità che si deve conquistare, secondo i libri santi, con tormenti da fare onta agli stessi Dei che ci fanno soffrire. Felicità che rende gli uomini pari agli Dei perché li fa più forti nel dolore che non sia l'inferno nel martoriare[16].





[1] G. Orofino e F. Sferra (a cura di), Introduzione a Ponti magici. Buddhismo e letteratura occidentale, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, 2009, pag. 12. L’opera è consultabile e scaricabile gratuitamente qui:
http://www.unior.it/userfiles/workarea_233/Ponti%20Magici%281%29.pdf
[2] E. Arnold, Prefazione a Buddha. La Luce dell’Asia, Giulio Perrone Editore, pag. 7
[3] Ibid.
[4] Id. pag 9
[5] Ibid.
[6] E. Spandri, The Light of Britain. Orientalismo e illuminazione nella letteratura britannica, 1769-2004, in Orofino – Sferra, Ponti magici, cit., pag. 41
[7] Ibid.
[8] Arnold, Prefazione, cit., pag. 7
[9] Arnold, Buddha. La Luce dell’Asia, cit., pag. 20-21
[10] Spandri, The Light of Britain, cit., pag. 43
[11] Id., pag. 44
[12] Id., pag. 44-45
[13] Arnold, Buddha. La Luce dell’Asia, cit. pag. 135
[14] Id., pag. 137
[15] Id., pag. 136
[16] Id., pag. 75-76

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