TRIMURTI, “dalla triplice forma”
Il termine “Trimurti” è in lingua
sanscrita un aggettivo, e significa letteralmente “dalla triplice forma”[1], “che possiede tre aspetti”.
Ciò
a cui tale aggettivo si riferisce può essere una specifica divinità: ad esempio
l’aspetto del dio Vishnu detto Trivikrama,
cioè “Colui che con tre immensi passi
forma i tre mondi” (cielo, terra e mondo intermedio)[2].
Oppure si può ricercarne l’origine nella
triade delle antiche divinità vediche: Agni, Vayu e Surya (che rappresentano
terra, mondo mediano e cielo).
Nella comune accezione odierna del
termine, trimurti diviene in pratica
un sostantivo, la Trimurti – come è nota in lingua
italiana – e va ad indicare, dal medioevo indiano in poi, la triade degli dei
principali dell’India post-vedica, ovvero Brahma, Vishnu e Shiva, ognuno dei
quali è associato ad una funzione cosmica, è la personificazione di tale funzione: creazione (Brahma),
conservazione (Vishnu), dissoluzione (Shiva) dell’Universo.
Dopo la profonda crisi attraversata dal
Brahmanesimo antico a causa del suo irrigidirsi in formule cerimoniali e a
causa altresì di profonde trasformazioni sociali intervenute nell’India
dell’epoca, con la conseguente affermazione del Buddhismo, si assistette nei
secoli successivi ad una rinascita delle tradizioni religiose e filosofiche
(due aspetti mai separabili nell’India tradizionale) di quello che viene genericamente
chiamato Induismo. Ciò avvenne in
epoca medioevale nelle correnti vishnuite e in quelle shivaite (soprattutto nel
Sud), nelle quali tornava in primo piano la figura (preistorica, si può dire)
di Pashupati – Rudra – Shiva.
All’epoca della scomparsa del Buddhismo dall’India,
saranno queste correnti, insieme con il Brahmanesimo che fa “da sottofondo concettuale-ritualistico”[3],
a comporre il grande sincretismo induista di cui la Trimurti è il simbolo più noto anche in Occidente.
La Trimurti
non è il frutto di una astratta speculazione teologica (e già a partire di qui
è bene abbandonare ogni tentazione di fare confronti con la Trinità cristiana),
ma piuttosto dell’osservazione diretta del mondo e delle modalità del suo
manifestarsi, che avviene necessariamente attraverso le tre fasi di
nascita-vita-morte. In tal senso, la Natura è Triforme, trimurti, l’Essere è Uno.
Nella concezione ciclica del tempo che è
caratteristica dell’Induismo (e di tante altre culture tradizionali di ogni
luogo), creazione/manifestazione, conservazione e dissolvimento sono i tre
fondamentali aspetti dell’Essere, ed ognuno è indissolubilmente legato agli
altri: Shiva il distruttore è indispensabile al creatore Brahma, e questi lo è
per Vishnu il conservatore, e così via, all’interno di quell’Unico, il centro
della Ruota, che è l’Essere.
Un ulteriore significato della Trimurti lo si trova nella Maitri Upanishad, una delle Upanishad “medie” (probabilmente di
epoca post-buddhista). La V parte inizia con una invocazione a Brahma, del
quale viene detto:
“Tu
sei Brahma, invero, tu sei Vishnu, tu sei Rudra e sei Prajapati! Tu sei Agni,
Varuna, Vàyu, tu sei Indra e la Notturna Face; [..] tu sei la Terra ed il Tutto e tu sei anche l'Indecadibile; [..] Salve a te, Signore del Tutto! Spirito
dell'Universo, Creatore dell'Universo!”[4].
E subito dopo si legge:
“All'inizio,
invero, solo tenebra era. Essa nel Supremo stava: indi, mossa dal Supremo, diversa
si fece. E questa forma fu Rajas [azione]. E questo Rajas, messo in moto, diverso si fece. E fu forma di Sattva [luce,
essenzialità, bene]. Allora il Sattva fu
messo in moto e sapore [rasa] ne venne. Questa è la parte <del Sé>
pura, intelligibile, che, presente in ogni individuo, conosce il corpo ed è
caratterizzata da volizione, riflessione ed egotismo. Prajapati, Visva, di già
menzionati, sono sue manifestazioni. Ed ora quella che è la sua parte di
tenebra [tamas], o studiosi del Veda, questa è Rudra;
quella che è la parte attiva [rajas], questa, o studiosi del Veda, è Brahma; quella
parte che, invero, è la sua forma-sattva, o studiosi del Veda, questa è Vishnu;
questo Unico è, invero, divenuto triplo, sviluppandosi <quindi> in otto,
undici, dodici forme, in cento forme, in un numero illimitato di forme e, a
cagione del suo sviluppo, esso diviene creatore; esso, essendosi introdotto,
compie il suo movimento attraverso le creature. In tale modo Egli, lo Atman, è
dentro, è fuori [immane e trascende],
è dentro ed è fuori”[5].
La Trimurti
viene qui posta in relazione con i tre guna, gli attributi-sostanza che
costituiscono il mondo secondo il sistema filosofico Samkya:
-
Brahma
è raja-guna, la proprietà attiva, la
volontà creatrice;
-
Vishnu
è sattva-guna, la proprietà
dell’equilibrio dell’essere;
-
Shiva
è tamas-guna, la proprietà del
dinamismo.
Nessuno dei guna è superiore all’altro, tutti – in equilibrio tra loro –
concorrono all’esistenza del mondo. “Quando
si verifica lo squilibrio, sopraggiunge la Pralaya-Distruzione”[6].
Nonostante l’evidente importanza della
nozione di Trimurti, “non esiste però un culto speciale della
Trimurti in quanto tale; essa è la raffigurazione di un’idea generale”[7]
perpetuata in India fino ai nostri giorni, e che bene esprime la forza
unificatrice che sta alla base dell’Induismo.
Ogni culto attribuisce al proprio dio le
qualità, le caratteristiche, le potenze, degli altri. Ad esempio, la scultura
che si trova nelle grotte di Elephanta, vicino a Bombay, rappresenta Shiva
Mahesvara (Maha-Ishvara, il Supremo Signore), nei tre aspetti di creatore,
preservatore e distruttore. Lo stesso accade con i culti legati a Vishnu,
mentre il culto di Brahma è ormai sparito. Ma nessuno dei culti può fare a meno
degli altri, all’interno di una visione unitaria che già da sé evidenzia quanto
la definizione della tradizione religiosa indiana come “politeistica” sia del
tutto erronea.
Come scriveva il poeta Kalidasa nel V
secolo:
In
queste Tre Persone fu manifesto il Dio uno,
al
primo e all’ultimo posto ognuno, ma niuno da solo;
tra
i Brahma, Vishnu e Shiva, ognuno può essere
il
primo, il secondo, il terzo, nel sublime Tre.
E
già nel Ŗgveda (II millennio a.C.)
era detto:
Dio è Uno, ma i saggi lo chiamano con nomi diversi.
BRAHMA,
il creatore
Secondo un antico mito (di evidente
origine vishnuita), Bhrigu, uno dei sacerdoti del fuoco, si recò un giorno
presso gli dei della Trimurti per
stabilire chi fosse tra loro il più degno di adorazione: vide Shiva troppo
assorbito dalla sua compagna Parvati, e Brahma troppo assorto in se stesso,
ovvero, secondo un’altra versione, troppo intento ad ascoltare la musica della
dea Sarasvati. Solo Vishnu era quindi veramente degno di adorazione.
Nonostante il mito, in India Shiva è
tuttora, come Vishnu, una delle divinità più amate e venerate, ma è invece vero
che, almeno a partire dal XIX secolo, il culto di Brahma è praticamente
scomparso, e sono pochissimi i templi a lui dedicati. Anche se mantiene intatto
il suo ruolo come dio “concettuale” dei filosofi e degli intellettuali fedeli
alla tradizione.
Brahma deriva il suo
nome (che è maschile) dalla radice sanscrita brih (espansione, sviluppo, crescita).
Il Brahma dio-persona non deve essere
confuso con l’impersonale Brahman
(nome di genere neutro), detto anche Brahman Nirguna (privo di attributi) o
Parabrahman (para = al di là), concetto che esprime il Potere che esiste in sé,
il non-manifesto, il Principio cosmico da cui tutto si manifesta.
Brahma, e con lui gli altri dei della Trimurti e tutte le divinità del pantheon induista, sono “compresi” nel
Brahman, “quell’Uno nel quale si trova
tutto ciò che esiste”, come è detto nel Ŗgveda.
Essi costituiscono un tramite tra il Brahman e il mondo, tra il non-manifesto e
il manifesto.
Brahman è il Principio non-manifesto di
cui l’universo è la costante manifestazione ad opera di Brahma, il creatore,
punto di equilibrio tra il principio centripeto (Vishnu) e quello centrifugo
(Shiva).
In quanto principio impersonale ed
immanifesto, il Brahman non può essere compreso appieno né tantomeno
concettualizzato dalla mente razionale. È ciò che esprime con efficacia la
famosa formula della filosofia vedanta “neti
neti”, né-né, non questo non quello: il Brahman è al di là di ogni
dualismo, non ricade in alcuna categoria mentale, nulla può essere detto a tale
proposito.[8]
Quindi l’universo è sia il prodotto di una
creazione (ha cioè un’origine e una fine), sia il risultato di un ininterrotto
ed eterno processo di manifestazione.
Mentre il Brahman non può ovviamente
essere raffigurato in alcun modo, Brahma è rappresentato come un uomo dal viso
regolare, con barba e baffi, una sorta di modello ideale del Rishi, il sacerdote-veggente. Ha quattro
teste incoronate (dalle quali recita i quattro Veda) e quattro braccia che reggono gli oggetti rituali: il mala (rosario), i Veda, un cucchiaio e una brocca per le abluzioni. Siede o è in
piedi su un loto; oppure sul suo veicolo, l’oca selvatica Hamsa[9],
simbolo di virilità ma anche di alte realizzazioni spirituali, in quanto in
grado di camminare sulla terra, nuotare nell’acqua e volare nei cieli[10]. Compagna di Brahma è Sarasvati, la dea che presiede alle
scienze e alle arti, in particolare alla musica.
In realtà le origini di Sarasvati, dal
punto di vista della storia dei miti, sono ancora più antiche di quelle di
Brahma, ma secondo uno dei Purana[11]
“Brahma formò dalla sua stessa immacolata
sostanza una femmina che è celebrata con i nomi di Shatarupa [dalle mille
forme], Sarasvati [le dolci acque], Gayatri [personificazione di un antico
metro composto da ventiquattro sillabe disposte secondo una terzina di otto
sillabe ciascuna] e Brahmani [o
Brahmi, femminile di Brahma]”[12].
Brahma, come
tutti gli dei e tutto l’universo, esiste nel tempo, non al di fuori di
esso. La sua esistenza è legata alla concezione induista del tempo, un tempo ciclico,
non lineare, in cui ogni cosa nasce, esiste, muore e rinasce, in cicli cosmici
senza inizio e senza fine.
Secondo i miti, ogni ciclo del mondo si
divide in 4 età (yuga), che prendono i loro nomi dai quattro colpi del gioco dei
dadi: Krita (4 punti), Treta (3 p.), Dvapara (2 p.), Kali (1
p.), e che si susseguono nell’ordine sopra descritto.
Il Krita Yuga corrisponde al colpo
vincente, quello che guadagna tutta la posta in gioco. È, secondo la
terminologia della tradizione greco-romana, l’età dell’Oro: ogni cosa è
completa in se stessa; l’ordine (Dharma)
morale e sociale si regge sulle 4 zampe (spesso è raffigurato come una vacca),
ed è quindi del tutto stabile; uomini e donne sono virtuosi, e vivono a lungo e
in salute; la società è in perfetto equilibrio nelle sue componenti. Il Krita Yuga dura 1.728 mila anni.
Al suo termine, inizia il Treta
Yuga, e con esso un periodo di progressiva decadenza. Tutto si regge su
¾ del Dharma, l’adempimento dei
doveri etici, religiosi, sociali, familiari, non è più spontaneo, deve essere
appreso. La durata di questo yuga è
di 1.296 mila anni.
Il decadimento continua, e si
approfondisce, con il Dvapara Yuga, un’era di instabile
equilibrio tra perfezione e imperfezione, tra luce ed oscurità. L’ordine
universale si regge su due sole zampe, gli esseri umani divengono avidi, avari,
attaccati ai beni materiali. Tutto questo per 864 mila anni, la metà del primo yuga.
Infine, il Kali Yuga, l’età oscura.
Nel mondo c’è solo egoismo, violenza, guerre, dolore. Il materialismo regna
sovrano, il sacro scompare. È detto nei Vishnu
Purana: “Quando la società raggiunge
uno stadio in cui la proprietà determina il rango, la ricchezza diviene l’unica
fonte di virtù, la passione il solo legame che unisce marito e moglie, la
falsità la fonte del successo nella vita, il sesso l’unico mezzo per ottenere
godimento”, allora siamo nel Kali
Yuga. Che è infatti l’età attuale, iniziata venerdì 18 febbraio 3102 a.C.,
con la morte del corpo fisico del dio Krishna. La sua durata è di 432 mila
anni, ¼ del Krita Yuga. Ora (2015)
siamo nel 5117° anno del Kali Yuga,
che terminerà quindi tra 426.883 anni, ed in questo lasso di tempo ogni aspetto
dell’esistenza andrà volgendo al peggio.
Il totale dei 4 yuga è dunque di 4.320 mila anni. Tale periodo è detto Mahayuga (maha = grande).
Mille mahayuga
(ovvero 4.320 milioni di anni umani) corrispondono ad un giorno di vita del dio
Brahma, il creatore. La notte è di eguale durata.
Un giorno di Brahma (detto kalpa)
inizia con l’emanazione di un universo, e termina con la dissoluzione e il
riassorbimento dello stesso in Lui. Durante la notte, tutto sussiste come seme,
come potenzialità della manifestazione che avverrà con il nuovo giorno,
allorquando Brahma riemerge sul fiore di loto sbocciato dall’ombelico di Vishnu
dormiente sulle spire del serpente Ananta.
Ma anche Brahma è soggetto al ciclo di
manifestazione e dissolvimento: la sua vita dura infatti 100 anni, fatti di
giorni e notti di Brahma, ed è quindi pari a 311.040 miliardi di anni umani
(4.320 milioni [1 kalpa] x 2 [dì +
notte] x 360 giorni x 100 anni). Attualmente, Brahma sta vivendo, secondo i
calcoli dei Purana, il suo 51° anno
di vita.
La vita di Brahma termina con una
totale dissoluzione, nella quale svaniscono tutti gli stati dell’essere, fino a
quelli più alti, più sottili. Nei 100 anni (di Brahma) successivi domina uno
stato di assoluto riassorbimento, dopodiché l’intero ciclo ricomincia da capo,
e ancora, e ancora….
Come si vede, si tratta di un mito
cosmogonico (e di un calcolo) molto complesso, probabilmente il più articolato
tra quelli delle culture tradizionali conosciute, e che può essere considerato
come un tentativo, compiuto in epoche remote, di tradurre il tempo infinito in un tempo finito, calcolabile, in qualche modo pensabile. Il mito è quindi un
linguaggio che consente alla mente umana, nei limiti della sua temporalità, di
gettare uno sguardo sull’Eternità.
[1] M. Stutley, J.
Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini, pag. 441.
[2] Cfr. A. Morretta, Miti
indiani, Ed. Longanesi, pag. 95.
[3] Id., pag. 96.
[4] P. Filippani
Ronconi (a cura di), Upanișad, Ed. Boringhieri, pag. 562
segg.
[5] Id.
[6] Morretta, pag. 100.
[7] Id.
[8] Si pensi alla
teologia negativa di Plotino e di Meister Eckhart, o all’apofatismo buddhista o
taoista, secondo il quale “il Tao di cui
si può parlare non è l’eterno Tao” (Laozi, o Lao Tzu).
[9] Si rammenti che in
latino l’oca selvatica è anser.
[10] Inoltre il suo
nome, letto al contrario, Hamsa – sa ham, “questo io sono”, è espressione
della sostanziale unità tra umano e divino, cuore degli insegnamenti delle Upanishad.
[11] I Purana, redatti a partire dal VI-V sec.
a.C., sono raccolte di storie molto più antiche, utilizzate per far giungere
gli insegnamenti dei Veda alle donne
e alle caste inferiori.
[12] Morretta, pag. 217.
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