mercoledì 26 ottobre 2016

La filosofia come pratica tra Oriente ed Occidente


Il Dizionario etimologico di Giacomo Devoto alla voce filosofia recita: “dal greco φιλοσοφια (philosophìa), composto di φιλο-, tema verbale indicante ‘amore’ e σοφια ‘sapienza’, astratto di σοφοσ (sophòs) saggio[1].
Il ben noto Vocabolario greco-italiano di Lorenzo Rocci ci permette di entrare più nel dettaglio, traducendo σοφια (sophìa) con: a) abilità, destrezza, pratica; b) conoscenza, sapere, scienza; c) sapienza, senno, saggezza, prudenza. E φιλια (filìa) con: amicizia, relazioni amichevoli, amore, affezione, brama, desiderio. Da cui φιλοσ (filòs): caro, diletto, amato, gradito, piacevole, amico…[2]
Genericamente, quindi, filosofia come amore per la saggezza.
Se l’etimologia del termine è sufficientemente chiara, entrare nel suo significato preciso, soprattutto tenendo conto delle variazioni da esso subite nel corso dei secoli e nelle opere dei filosofi delle diverse scuole, aprirebbe un ventaglio di possibilità che qui non è dato di esaminare. Si può consultare, a solo titolo di esempio, la voce filosofia nel Vocabolario on-line Treccani, in: http://www.treccani.it/vocabolario/filosofia/.
Oppure leggere ciò che riporta il sito dell’Enciclopedia Treccani, in maniera ben più estesa e dettagliata (http://www.treccani.it/enciclopedia/filosofia/).
O ancora, leggere le pagine introduttive di qualsiasi storia della filosofia occidentale…

Invece, proviamo a domandarci: che cosa concretamente “fa” un filosofo?

Una risposta possibile è quella data dalla servetta di Talete di Mileto, filosofo greco del VII-VI sec. a.C., riportata da Platone nel Teeteto (173c-174b):
Mentre stava mirando le stelle e avea gli occhi in su, [Talete] cadde in un pozzo; e allora una sua servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo motteggiò dicendogli che le cose del cielo si dava gran pena di conoscerle, ma quelle che avea davanti e tra i piedi non le vedeva affatto. Questo motto si può ben applicare egualmente a tutti coloro che fanno professione di filosofia. Perché il filosofo in verità non solo non si avvede di chi gli è presso, né del vicino di casa che cosa faccia, ma nemmeno, si può dire, se è uomo o altro animale; ma se si tratti invece di ritrovare che cosa l’uomo è, e che cosa alla natura dell’uomo, a differenza dagli altri esseri, conviene fare e patire, egli adopra in codesto ogni suo studio[3].

Un’immagine leggera ed ironica della figura del filosofo, quindi, che nella storia della filosofia occidentale è stata più volte ripresa, attribuendole significati diversi, spesso contrastanti tra loro: la contrapposizione tra mondo del divenire e mondo dell’essere; una critica dell’astrologia; un simbolo dell’audacia di chi vuole isolarsi per meglio osservare la realtà; o più semplicemente la derisione di una persona perennemente distratta, che è forse l’immagine del filosofo più diffusa tra le persone comuni.
La storiella della servetta (o meglio, uno dei suoi possibili significati) è forsanche leggibile in filigrana, a ben altro livello invero, in una famosa citazione di Karl Marx, l’XI delle Tesi su Feuerbach, un breve scritto del 1845: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo[4].

Le parole di Marx ci portano subito al di là dell’immagine stereotipata del filosofo a testa in su, perso nelle nuvole dell’astrazione, che non si accorge che “la vita sociale è essenzialmente pratica [e che] tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella attività pratica umana e nella comprensione di questa attività pratica[5].
Ma la posizione marxiana non è la sola alternativa possibile all’immagine del filosofo della servetta barbara: una visione quantomeno insufficiente, come dimostra il fatto che ormai da qualche migliaio d’anni l’uomo continua a fare in qualche modo filosofia, spinto a ciò da una necessità interiore non diversa dal bisogno di nutrirsi, scaldarsi, ripararsi, riprodursi.  
Si può invece proporre – necessariamente, si può dire, dopo aver visto ciò che il marxismo ha contribuito a provocare nella storia recente dell’umanità – un’altra visione, che supera sia quella del filosofo impegnato a trasformare la società e a creare l’uomo nuovo, sia quella del saggio che contempla il proprio ombelico.
La troviamo espressa molto sinteticamente in una citazione del sociologo francese Georges Friedmann (1902-1977):
Fare il proprio volo ogni giorno! Almeno un momento che può essere bre­ve, purché sia intenso. Ogni giorno un ‘esercizio spirituale’, da solo o in com­pagnia di una persona che vuole parimenti migliorare. Esercizi spirituali. Usci­re dalla durata. Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome [..]. Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l'odio. Amare tutti gli uomini liberi. Eternarsi superandosi.
Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta. Numerosi so­no quelli che si immergono interamente nella politica militante, nella prepara­zione della rivoluzione sociale. Rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivo­luzione, se ne vogliono rendere degni[6].

L’espressione-chiave è esercizio spirituale, un concetto inusuale, per molti inaccettabile (dal punto di vista marxista, poi!), che in apparenza appartiene ad epoche lontane o all’ambito religioso o al misticismo orientaleggiante.   
Il termine spirituale (che non è affatto sinonimo di religioso) può oggi risultare ostico, astratto, quasi impronunciabile per chi è uso a ben altri linguaggi, ma è il solo che possa effettivamente coprire tutti gli aspetti di ciò di cui si va a parlare, cosa che aggettivi come mentale, morale, intellettuale, psichico… non possono fare, come ha spiegato molto bene lo studioso francese Pierre Hadot nel suo saggio Esercizi spirituali, sul quale si fondano queste considerazioni[7].
E se parlare di esercizi spirituali dovesse, fastidiosamente per alcuni, richiamare alla mente gli Exercitia spiritualia di Ignazio di Loyola (1491-1556), basterà riflettere sul fatto che questi ultimi non sono che “una versione cristiana di una tradizione greco-romana[8] ben più antica, la quale da sola è sufficiente a dimostrare la rozzezza delle immagini della filosofia come di un astratto lavorio intellettuale, di un mero rimando da un testo ad un altro, di uno sterile ruminare del pensiero, contrapposto al pensiero “concreto” dello scienziato, del materialista dialettico…o della servetta di Talete.
L’espressione latina esercitium spirituale corrisponde al greco ασκησις (àskesis), che non va tradotto e concepito soltanto come ascetismo, bensì soprattutto come pratica costante di veri e propri esercizi, ben radicata nella tradizione filosofica classica. Ricordare tale diffusione e radicamento significa comprendere l’autentica natura della filosofia e cosa significasse fare filosofia, prima che la filosofia stessa divenisse un momento particolare della vita spirituale separato dagli altri (la religione, la teologia, la scienza, la politica…).

Tale attitudine è assolutamente centrale nelle scuole stoiche (da στοα, stoà, il portico sotto cui si tenevano le lezioni – 300 a.C.), per le quali la filosofia è esercizio: essa “non consiste nell’insegnamento di una teoria astratta[9] o in interminabili commentari di testi o in una interpretazione del mondo tra le tante, come direbbe Marx, bensì “in un’arte di vivere, in un atteggiamento concreto, in uno stile di vita determinato, che impegna tutta l’esistenza. L’atto filosofico non si situa solo nell’ordine della conoscenza, ma nell’ordine del ‘Sé’ e dell’essere: è un progresso che ci fa essere più pienamente, che ci rende migliori. È una conversione che sconvolge la vita intera, che cambia l’essere di colui che la compie. Lo fa passare dallo stato di una vita inautentica, oscurata dall’incoscienza [..] allo stato di una vita autentica, dove l’uomo raggiunge la coscienza di sé, la visione esatta del mondo, la pace e la libertà interiori[10], che costituiscono – osiamo aggiungere – il reale fondamento della pace e della libertà anche nella società.
Tipica incarnazione del filo/sofo era Socrate, che secondo Platone si identificava con Eros, figlio di Poros (la via, l’espediente, la risorsa, l’acquisizione) e di Penìa (la mancanza, la povertà): egli era cioè privo di sophìa, la saggezza, ma sapeva conseguirla. In lui, come in tutta la tradizione filosofica classica, filosofia era “esercizio del pensiero, della volontà, di tutto l’essere, per cercare di pervenire ad uno stato, la sapienza, che d’altronde era quasi inaccessibile all’uomo[11]. Filosofia, quindi, come via e come mèta.
Per quasi tutte le scuole filosofiche antiche la sofferenza umana trova origine nell’in/coscienza (in sanscrito è a-vidya, non-vedere), nelle passioni, nel cercare di ottenere stati e oggetti che non possono essere afferrati o trattenuti, nello sforzarsi di evitare mali inevitabili. La soluzione consiste nella pratica della filosofia come di una vera e propria terapia delle passioni, che permette la trasformazione interiore del modo di essere dell’uomo: non cercare “di conseguire che il bene che [si] può ottenere, e [non cercare] di evitare che il male che [si] può evitare[12]. Ossia ciò che dipende dalla libertà umana, il bene morale e il male morale. Ciò che invece sfugge alla nostra libertà e dipende dalla naturale catena di causa-effetto, ovvero il dominio esclusivo della natura, ci deve essere in-differente (ovvero non devono essere introdotte differenze) e va accettato[13].
Purtroppo “non possediamo nessun trattato sistematico che codifichi un insegnamento e una tecnica degli esercizi spirituali[14], anche perché essi facevano parte di insegnamenti orali, come in tutte le tradizioni spirituali, ed erano comunque molto diffusi. In due liste, leggibili in Filone di Alessandria (20 a.C.-45 d.C.), vengono elencati diversi tipi di esercizi: la ricerca, l’esame approfondito, (σκεψις, skèpsis, da cui scettico, termine che col tempo ha perduto il suo significato originario), la lettura, l’ascolto, l’attenzione, il dominio di sé, l’indifferenza alle cose indifferenti; e ancora: le meditazioni, i ricordi di ciò che è bene, il compimento dei doveri, le terapie delle passioni. Interessante il termine greco tradotto con meditazione: è μελετη (melète), che significa meditazione, studio, pratica, ma anche cura; così come il latino meditatio e l’italiano meditazione nascono dalla radice med-, la stessa di medicina, medico[15]. Analogamente, l’insegnamento del Buddha si presenta come percorso di guarigione: diagnosi, prognosi, terapia, liberazione dalla sofferenza.
Inoltre, come in moltissime tradizioni dell’Oriente (lo Yoga, il buddhismo tibetano, il Taiji…), è accertato che Gaio Musonio Rufo (Musonio l’Etrusco – I sec. d.C.) raccomandasse, oltre gli esercizi spirituali propriamente detti, anche esercizi fisici ad essi legati, quali l’abituarsi alla fame e alla sete e adattarsi alle intemperie.
Lo sviluppo dell’attenzione attraverso gli esercizi di meditazione e di memorizzazione è fondamentale per gli stoici. Attenzione significa per loro “una vigilanza e una presenza di spirito continue, una coscienza di sé sempre desta, una costante tensione dello spirito[16], sapere in ogni istante ciò che si fa e ciò che si vuole. È, come si dice nel buddhismo Zen, unità di corpo e mente nel qui ed ora. Molto importante è esercitarsi dapprima nelle cose più facili, per acquisire e mantenere abitudini e stili di vita sempre più evoluti. Molti titoli di trattati di Plutarco (46-125 d.C.) fanno riferimento all’oggetto degli esercizi stessi: L’amore fraterno, L’amore per i figli, La curiosità, La brama delle ricchezze… Lo stesso è per il romano Seneca (4 a.C.-65 d.C.): L’ira, L’ozio, La tranquillità dell’animo
Per la scuola di Epicuro (342-270 a.C.), il fine della filosofia è sempre quello di portare l’uomo alla guarigione, ma per far questo lo spirito deve essere esercitato alla distensione. Portando alla mente il ricordo dei piaceri del passato e distaccandosi dalla memoria delle sofferenze. Lo scopo è la tranquillità dello spirito (αταραξια, ataraxìa). Non più la meditazione stoica come vigilanza costante, bensì come scelta di distensione, di gratitudine verso la vita e la natura. Quindi, Epicuro non è il filosofo del piacere, come banalmente viene presentato[17], ma è il fondatore di una scuola che al pari delle altre propone la filosofia come terapia. Ma per tutti, questo è il nodo fondamentale, la guarigione non è il frutto – impossibile da raggiungere, in questo modo – di una adesione intellettuale ad una qualche teoria, bensì il risultato di una didattica, dell’applicazione metodica di precise tecniche pratiche in tutti gli aspetti della propria vita.
Quale provvisoria conclusione di questa breve disamina della filosofia greco-romana nel suo aspetto di pratica della filosofia,  si deve osservare che “probabilmente la pratica degli esercizi spirituali si radica in tradizioni che risalgono a tempi immemorabili[18], che precedono i secoli d’oro della civiltà classica e rimandano a tradizioni magico-religiose di tipo sciamanico, alle stesse pratiche corporee, respiratorie e mentali che, molto più ad Oriente, hanno dato origine alle diverse tecniche note con il nome generico di yoga e poi a tutte le tradizioni della spiritualità indiana ed estremo-orientale, che hanno dell’uomo una visione olistica e non dualista.
Tradizioni che risalgono alla cosiddetta preistoria (qui le distinzioni Oriente/Occidente e storia/preistoria non valgono più di tanto…), il cui studio da questo punto di vista aprirebbe orizzonti nuovi ed estremamente attuali.

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Se guardare alla filosofia come concreto esercizio spirituale e non come mera attività intellettuale può essere considerato un punto di vista inconsueto per l’Occidente, per quanto concerne l’Oriente si tratta invece di una osservazione quasi scontata.

Se solo ci si sofferma sulle filosofie dell’India, vediamo innanzitutto che filosofia e religione non sono mai state separate, anche se “le discussioni filosofiche non sono state intralciate dalle forme della religione[19]. La vita in India è dominata da motivi spirituali, e la filosofia possiede lo stesso carattere: “la filosofia incentra tutto il suo interesse nelle dimore degli uomini, e non in solitudini sopralunari. Trae le sue origini dalla vita, e ritorna alla vita, dopo esser passata attraverso le scuole[20]. Grazie a questo, la religione dell’India non è dogmatica, ma si adatta costantemente ai diversi livelli di evoluzione spirituale dell’uomo e al mutare delle concrete condizioni di vita.
I diversi sistemi filosofici indiani, i darśana (dalla radice sanscrita drś- vedere, quindi: punti di vista, ma non nel banale senso di “opinioni”)[21] costituiscono forme di autocoscienza e di critica che vagliano liberamente ogni cosa, senza alcun limite che non risulti dalla logica, e che non si pongono in conflitto l’una nei confronti dell’altra.
L’interesse centrale della filosofia indiana è il dell’uomo. Il motto che riassume tale ricerca, fondamentalmente rivolta verso l’interiorità umana, è atmanam viddhi, ovvero conosci te stesso, il medesimo γνωθι σεαυτον (gnòthi seautòn) inscritto nel tempio di Apollo a Delfi.
Per condurre tale ricerca, finalizzata alla realizzazione delle più profonde aspirazioni umane, il pensiero dell’India tradizionale ha preso in esame non solo la realtà mentale umana nello stato di veglia, ma in tutti i suoi aspetti: la veglia, il sonno con sogni, il sonno senza sogni: “se consideriamo la coscienza desta come il tutto, allora otteniamo concezioni metafisiche realistiche, dualistiche e pluralistiche. Se invece studiamo esclusivamente la coscienza onirica, giungiamo a dottrine soggettivistiche. Lo stato di sonno senza sogni ci conduce poi a teorie astratte e mistiche. Ma la verità integrale deve prendere in considerazione tutti i modi di coscienza[22]. Per giungere infine al “Quarto”, turiya o caturtha, con cui si indica uno stato di coscienza pura, al di là dei tre precedenti, l'esperienza della verità ultima, lo stato di liberazione.
Il miglior esempio del carattere eminentemente pratico della filosofia indiana è fornito da uno dei sei darśana, sicuramente il più nominato in Occidente – anche se sovente conosciuto solo parzialmente e in maniera distorta. Si tratta dello Yoga, termine che deriva dalla radice yuj-, da cui il latino yugum, giogo, quindi: aggiogare, unire.

Il secondo sutra di Patanjali
Nel suo sviluppo, che risale – come già detto anche per gli esercizi spirituali occidentali – alle origini della storia umana, lo yoga si servì di diversi mezzi pratici per raggiungere lo scopo di aggiogare mente e corpo, per “ottenere una perfetta unità, operante ai più profondi livelli dell’inconscio, al di là dei limiti di pensiero e linguaggio, e libera nel suo flusso fra le correnti di energia che pervadono spazio e tempo[23]. Se i primi strumenti furono le tecniche sciamaniche e forse l’uso di sostanze psicoattive, si giunse poi – secondo alcuni già nel II sec. a.C. – alla redazione del fondamentale testo del filosofo Patanjali, gli Yogasutra, che fecero dello Yoga un vero e proprio “sistema” filosofico[24]. Esso “è il risultato di un enorme sforzo inteso non solo a passare in rassegna e a classificare una serie di pratiche ascetiche e di norme contemplative che l’India conosceva da tempo immemorabile, ma anche a valorizzarle da un punto di vista teorico, fondandole, giustificandole e integrandole in una filosofia[25] che riprende a grandi linee i caratteri fondamentali del sistema Sāṃkhya.
Come negli esercizi spirituali dell’ellenismo, nel sistema Yoga vengono presi in esame tutti gli aspetti dell’uomo come unità di corpo e mente e come relazione col cosmo: l’etica e i rapporti interpersonali; la conoscenza e il lavoro sul corpo (esercizi psico-fisici, alimentazione, stile di vita, prevenzione e terapia…) e sulla respirazione fino ai suoi aspetti più sottili; l’attività mentale in tutte le fasi e in tutti gli stati: sensazioni, percezioni, volizioni, intellezione; per giungere poi alle tecniche di meditazione e concentrazione, la fase superiore del sistema elaborato da Patanjali che conduce alla liberazione suprema, il samadhi.
Come si vede, lo Yoga – termine che sta altresì ad indicare l’aspetto pratico, esperienziale, di tutte le tradizioni spirituali indiane, ma non solo: yoga buddhista, yoga jaina ecc. – è tutt’altro che una filosofia astratta ed intellettualistica, così come non lo sono lo stoicismo, l’epicureismo ecc.; così come, in definitiva, non lo è la filosofia tout court, a meno che come tale non la si voglia vedere e proporre, per ignoranza o per specifici interessi…



[1] G. Devoto, Dizionario etimologico, Ed. CDE su lic. Le Monnier, pag.169
[2] L. Rocci, Vocabolario greco-italiano, Soc. Ed. Dante Alighieri, pag. 1688 e pag. 1959
[3] http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiaantica/testiantichi.pdf
[4] http://www.homolaicus.com/teorici/marx/tesi_feuerbach2.htm
[5] Marx, VIII Tesi su Feuerbach, in: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1845/3/tesi-f.htm
[6] Cit. in P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Ed. Filosofica Einaudi, pag. 29
[7] In: P. Hadot cit., pag. 30. Si noti che in francese esprit significa spirito, ma soprattutto mente. In alternativa, ma più di rado, viene usato come sostantivo l’aggettivo mental (il mentale). Cfr. R. Boch, Dizionario “Il Boch”, Ed. Zanichelli
[8] Hadot, “Esercizi spirituali...”, pag. 30
[9] Id., pag. 31
[10] Id., pag. 32
[11] Id., pag. 156
[12] Id., pag. 32
[13] Ancora una volta è molto significativa una notazione etimologica: il termine θεραπεια (therapèia, terapia) indica in greco la cura del corpo e dello spirito, ma anche l’azione sacra, il culto. Cfr. Rocci, pag. 878
[14] Hadot, pag. 34
[15] Si veda: http://zenvadoligure.blogspot.it/2012/09/unisabazia-200506-3-linsegnamento-la.html
[16] Id.
[17] Curiosamente, Epicuro era il pensatore classico prediletto da Marx, che però lo vedeva soltanto come filosofo ateo e materialista
[18] Id., pag. 43 e nota 1
[19] S. Radhakrishnan, La filosofia indiana, Vol. I, Ed. Einaudi, pag. 8
[20] Id., pag. 7
[21] I darśana tradizionali sono sei: Mīmāṃsā, Vedānta, Nyāya, Vaiśeṣika, Yoga e Sāṃkhya
[22] Radhakrishnan, pag. 11
[23] M. e J. Stutley, Dizionario dell’induismo, Ed. Ubaldini, pag. 508
[24] Tradotti in lingua italiana con un ottimo commentario in: I.K. Taimni, La scienza dello Yoga, Ed. Ubaldini 1970
[25] M. Eliade, Lo Yoga - immortalità e libertà, Ed. Sansoni, pag. 22