sabato 18 marzo 2017

Quando l’Esistenzialismo tedesco volse a Levante: II – Karl Jaspers


Oltre a Heidegger, l’altro grande esponente dell’Esistenzialismo tedesco fu Karl Jaspers (1883-1969).
A differenza del primo, Jaspers si dedicò inizialmente agli studi di medicina e lavorò fino al 1915 in una clinica psichiatrica. Nel 1913 pubblicò un testo ancor oggi fondamentale, la Psicopatologia generale.
Studiò poi filosofia come autodidatta, conseguì la docenza e insegnò presso l’Università di Heidelberg. Nel 1937 perse la cattedra a causa della sua opposizione al nazismo – il che non accadde a Heidegger, il quale anzi guardò al regime con simpatia.  Jaspers fu anche obbligato a scegliere tra divorziare dalla moglie Gertrud, ebrea, ed emigrare ma non fece nessuna delle due cose e da quel momento visse come un recluso, nascosto ad Heidelberg. I nazisti sapevano della sua presenza, ma ormai la sua capacità di nuocere era ridotta al minimo. Dopo la fine della guerra riottenne la cattedra, ma nel 1948 si trasferì in Svizzera, in quanto non condivideva le scelte operate dalla Germania della ricostruzione. Lì rimase fino alla morte, continuando la sua attività di docente e di scrittore di testi filosofici, spesso legati anche a temi politici, quali il rischio atomico e la riunificazione della Germania (una scelta per lui secondaria, essendo da privilegiare invece la ricostruzione del senso della responsabilità civile e morale del Paese).

Karl Jaspers
Al centro della sua ricerca – in campo prima medico poi filosofico – egli pose il tema dell’esistenza, la quale è sempre la mia esistenza, singola, inconfondibile, storicamente individuata. Unitamente alla ragione – che è intelletto per la coscienza, vita per lo spirito e ragione chiarificatrice per l’esistenza stessa – e soltanto con essa, l’esistenza si apre alla verità, che è comunicazione con gli altri [1].
Nella comunicazione – che è movimento infinito, inesauribile – coincidono l’essere se stesso, nella propria unicità, e l’essere vero, che si rivela agli altri e con essi comunica. Disse Jaspers: “L’esistenza diventa manifesta a se stessa, e con ciò reale, se essa con un’altra esistenza, attraverso di essa e con essa, giunge a se stessa[2].
La comunicazione non può comunque raggiungere una sua forma definitiva, compiuta – se lo facesse sarebbe distrutto il compito dell’uomo, che solo in essa diviene se stesso. Lo scacco della comunicazione è riempito dalla trascendenza. È un limite impensabile, il pensarlo fa solo ricadere nelle forme già note – ovvero incompiute – della comunicazione. A quel limite non c’è che il silenzio.
Come si vede, per Jaspers – come per Heidegger – esistenza è sempre esistenza nel mondo. Esistenza è ricerca dell’essere, ovvero guardare a sé come Dasein, Esser-ci. È una ricerca senza fine, una orientazione nel mondo, da una cosa ad un’altra cosa, mai definitiva. Non è una conoscenza del mondo, che resta un orizzonte trascendente, un orizzonte che si sposta col progredire stesso della conoscenza.
Ogni immagine totale del mondo non è che un singolo punto di vista tra i tanti, è ciò che Jaspers chiama cosmo. Ciò che sta oltre il cosmo resta impensato, spesso addirittura insospettato.
Medici e psichiatri – disse una volta – devono imparare a pensare[3], laddove pensare significa andare al di là della scissione soggetto/oggetto, che fa sì che l’oggetto appaia nei limiti già predeterminati dal soggetto. Oltrepassare l’oggettività consente di cogliere le cose nel loro rinviare alla totalità, comprendere l’uomo come apertura alla domanda.
La verità non è quindi un possesso definitivo, la verità è la via. La filosofia non è un sapere la totalità, bensì diviene un continuo superamento delle risposte già raggiunte. Non si tratta di una dottrina, ma di un atteggiamento dell’esistenza. Si parla allora di fede, non la fede religiosa che porta alla chiusura dogmatica e indiscutibile, ma la fede filosofica, che è tensione vigile e apertura verso ciò che è oltre.
Il pensiero di Jaspers non è conclusivo, ma non per questo conduce alla rinuncia o al nichilismo, in quanto rimane fondamentalmente aperto: la filosofia per lui non è una sapienza/saggezza (sophia) conseguita una volta per tutte, è amore per la sapienza/saggezza (filo-sophia). È critica, è crisi. È “impedire che il mondo delle risposte copra la domanda e la invada fino a oscurare la radice che l’ha generata[4], e quindi è libertà, anzi, è liberazione.

Dal 1948 in poi Jaspers cominciò ad insistere “sugli aspetti positivi della sua filosofia e [..] sul valore della fede come rivelazione e manifestazione immediata dell’essere trascendente[5].
Fede era per lui la vita stessa, “un ritorno all’origine misteriosa della vita, un ritorno in virtù del quale le cose perdono la loro assolutezza e l’essere si manifesta in un’esperienza inesprimibile, che i mistici hanno provato e metaforicamente descritto[6]. Egli accentuò così gli aspetti metafisici e teologici del suo pensiero, in contrapposizione con le vie intraprese da altri filosofi esistenzialisti, ad es. J.P. Sartre.
Jaspers non si identificò comunque con nessuna delle religioni “storiche”, difendendo invece l’idea di religiosità come origine e fondamento.
Portò questa visione anche nella sua concezione della storia umana, nella quale giunse a identificare un particolare periodo, l’Era – o PeriodoAssiale (Achsenzeit), compreso tra l’VIII e il II secolo a.C.
Fu una età che costituì un vero asse nella storia universale, durante il quale “l’uomo si rese consapevole dell’essere in generale, di se stesso e dei suoi limiti[7].
Nacquero in quel periodo le grandi filosofie di Confucio e Laotse in Cina, delle Upanishad e del Buddha in India, di Zarathustra e dei profeti biblici in Medio Oriente, di Omero e dei filosofi classici in Grecia.
Prima di allora il pensiero umano era privo di problematicità, il sapere era un sapere del sacro, e perciò dogmatico. Dopo, l’uomo, pur biologicamente inferiore all’animale, si rivelò portatore di una coscienza, che proviene dal suo essere mortale.
Nel rifiuto di questa situazione limite - scrisse Jaspers - egli sperimenta l’eternità del tempo, la storicità come manifestazione dell’essere nel tempo, l'obliterazione del tempo. La sua coscienza storica si identifica con la coscienza dell’eternità [..] La crescita di quest'epoca in tutti e tre i mondi in cui si è espressa, è costituita dal fatto che l'uomo prende coscienza [..] dei suoi limiti. Egli viene a conoscere il carattere terribile del mondo e la propria impotenza. Pone domande radicali [..].  Comprendendo così certamente i suoi limiti si propone obiettivi più alti. Incontra l'assolutezza nella profondità dell'essere se-stesso e nella chiarezza della trascendenza[8].
Alla fine del Periodo assiale si compì anche la separazione tra l’Oriente e l’Occidente, dove il processo si interruppe a causa della techne, la tecnica, l’aggressione alla terra e alla natura da parte dell’uomo, una tematica già incontrata in Heidegger. Ne costituiscono un perfetto esempio le figure mitiche di Adamo, che fu cacciato dal Paradiso perché temuto anche da Dio, e di Prometeo, che portò il sapere tecnico agli uomini che Zeus voleva distruggere – non a caso il giovane Marx sostenne che la filosofia fa propria la professione di odio di Prometeo nei confronti degli Dei, rivolgendola a tutte le divinità che non si sottomettono all’autocoscienza umana, una divinità superiore a loro [9].


Uno dei frutti della nozione di Periodo assiale è un’opera di Jaspers del 1957, I grandi filosofi (Die große Philosophen), suddivisa in tre sezioni: la prima, Le personalità decisive, è dedicata a Socrate, Buddha, Confucio e Gesù; la seconda, I riformatori creativi del pensare, a Platone, Agostino e Kant; la terza, I metafisici che attingono all’origine, ad Anassimandro, Eraclito, Parmenide, Plotino, Anselmo, Cusano, Spinoza, Laotse e Nagarjuna.
L’intera opera è stata tradotta in italiano e pubblicata nel 1973 presso Longanesi, ma non è più reperibile in libreria. Nel 2013 l’Editore Fazi ne ha ora riproposto la prima parte come testo autonomo [10], il che ci permette di conoscere le modalità con cui Jaspers ha affrontato la figura e l’insegnamento del Buddha storico.



Le fonti a cui Jaspers ha attinto sono costituite, come si legge nella Bibliografia, dagli scritti buddhisti più antichi: i Sutra, il Dhammapada, il Buddhacarita, il Theragatha e il Therigatha, con i bellissimi canti dei monaci e delle monache. Oltre alle opere di studiosi quali Oldenberg, autore di un Buddha tradotto anche in lingua italiana e tuttora reperibile.
Il testo (di circa 40 pagine) inizia con una succinta biografia del Buddha śākyamuni: qui il termine muni viene tradotto con “il taciturno” (della stirpe degli śākya), una traduzione corretta ma non molto comune (in genere si trova gioiello), che ha però il pregio di rimandare da subito il lettore ad una significativa visione del Sentiero buddhista come Via del Silenzio, una via mistica quindi – se si intende quest’ultima parola, che molti praticanti aborrono, nel suo senso etimologico, dal greco myein, tacere.
Jaspers riconosce che “non esiste alcun testo che riproduca con certezza le parole di Buddha”, e che la realtà “deve essere criticamente ricostruita sottraendo gli elementi palesemente leggendari e quelli che si dimostrano aggiunte postume. Chi volesse attenersi a ciò che è necessariamente certo arriverebbe, eliminando una cosa dopo l’altra, al punto in cui non rimane più nulla del testo” – così come accade, ci piace aggiungere, a chi si volesse mettere alla ricerca del proprio ego sostanziale, eterno, separato…

Quindi Jaspers passa ad esporre la dottrina del Buddha, il Buddhadharma, che “mira alla liberazione mediante la visione intellettiva”, attraverso un sapere che – diversamente dalla comune accezione del termine – “non si ottiene mediante processi logici di dimostrazione né sulla base dell’intuizione dei sensi, ma si riferisce all’esperienza che si ottiene nelle trasformazioni della coscienza e nei gradi della meditazione”. Il senso autentico dell’insegnamento del Buddha – afferma correttamente Jaspers – “va perduto se è racchiuso nelle proposizioni dottrinarie facilmente enunciabili e pensabili in modo astratto”.
Ma la verità, sia del pensare filosofico sia dell’esperienza meditativa, deve essere connessa “alla purificazione che la vita dell’uomo consegue nel suo agire morale”. L’insegnamento del Buddha non è un sistema conoscitivo, è un sentiero di salvezza. È l’Ottuplice Sentiero, che Jaspers così espone: “la fede retta, la decisione retta, la parola retta, l’azione retta, la vita retta, la morte retta, il pensiero retto, la concentrazione retta su di sé[11].
In sintesi, un corretto comportamento etico rende possibile la meditazione, questa porta alla conoscenza e quest’ultima alla liberazione. I diversi aspetti non si pongono però gerarchicamente l’uno sull’altro, ma agiscono di concerto, così come avviene per gli otto rami dello Yoga.
Sono qui interessanti le osservazioni di Jaspers in merito alla meditazione, la quale “non è una tecnica che può riuscire di per sé sola. È pericoloso disporre metodicamente dei propri stati di coscienza, accentuarne uno e farne scomparire un altro. Ciò porta l’uomo alla rovina quand’egli si dà alla meditazione senza ottemperare al giusto presupposto [che] consiste nel modo in cui si conduce tutta la propria vita, nella purezza di essa”.
E ancora: “i gradi meditativi non debbono consistere in certi speciali stati psichici di ebbrezza, di estasi, di piacere ottenuti con l’uso di hashish o di oppio, ma nella conoscenza più chiara possibile, superiore in chiarezza a ogni coscienza normale, conoscenza determinata da una presenza autentica e non dalla mera opinione”.
Jaspers è ben consapevole del fatto che una descrizione del Sentiero costituisce già di per sé “una cristallizzazione dottrinaria”, in contraddizione con la definizione stessa del Sentiero come Via di liberazione e non come sistema concettuale. Ma è anche vero che l’esposizione del Dharma nei testi “si presenta come una conoscenza che viene enunciata per la coscienza normale in distinte proposizioni e nessi razionali di pensiero”. In tale esposizione, ovvero nei Sutra del Canone Pali o in altri testi, “si avverte il gusto del concetto, dell’astrazione, della nomenclatura. Della combinazione, che è del tutto proprio della tradizione filosofica indiana”. Ma la comprensione razionale dell’insegnamento non può coglierne il vero senso, essa è solo un riflesso di quella concentrazione meditativa dalla quale l’insegnamento scaturisce.

Vengono poi esposti i punti-chiave dell’insegnamento del Buddha:
P le Quattro Nobili Verità sul dolore (duhkha) e sul suo superamento, che non portano ad un “atteggiamento pessimistico, ma [sono uno] sguardo conoscitivo sul dolore che tutto abbraccia”.
P Il sorgere condizionato (pratitya samutpada), la cui comprensione “è in grado di arrestare tutto questo terribile divenire spettrale”, e in merito al quale “non si prende in considerazione la possibilità di una caduta assolutamente primitiva da una perfezione eterna nell’ignoranza, il che potrebbe assumere l’aspetto di un analogo del peccato originale”.
P La dottrina (anatman) secondo cui “l’esserci è composto di vari fattori che si presentano fra i termini della serie causale, cioè dai cinque sensi e dai loro oggetti [..] e inoltre dalle forze inconsce dell’immaginazione che operano determinando disposizioni, impulsi, istinti, e costituiscono le potenze che edificano la vita, e infine dalla coscienza”, fattori che alla morte si dissolvono. Il Buddha “non nega l’io ma fa vedere come nessun pensiero riesce a penetrare nell’io autentico”.
P L’insegnamento (anitya) secondo cui ciò che esiste è “la corrente del divenire, che non è mai essere; l’apparenza dell’io che in verità non è un io sostanziale [..]. Il divenire è la catena delle esistenze momentanee [..], è la prima momentaneità del non-essere di ogni cosa che sembra essere”.
P Il Nirvana, la liberazione definitiva che si schiude dalla conoscenza. Jaspers riconosce bene come il parlare del Nirvana sia un paradosso, in quanto se ne parla rimanendo “entro il campo della coscienza illusoria”, il che fa del Nirvana un essere o un nulla. Se il Nirvana non è né essere né non-essere, esso è inconoscibile con i mezzi mondani, non può essere oggetto di ricerca scientifica, ma è comunque certezza. “Qui ha fine ogni questionare [..]. Si è annientato ciò che il pensiero poteva cogliere: e così si è pure annientato ogni sentiero del linguaggio”.
Anche qui, si conferma quanto già visto, il Dharmanon [è] una metafisica, ma via della salvezza”, il Buddha “non si presenta come maestro di un sistema, ma come nunzio del cammino della salvezza”. Le questioni metafisiche diventano anzi “una nuova prigionia, perché il pensiero metafisico si tien fermo proprio a quella forme dalle quali tende a liberarci la via che conduce alla salvezza”. Di qui, la potenza del silenzio, che non significa che il Buddha fosse privo di quelle conoscenze, ma che è invece strumento di comunicazione del suo pensiero. La verità non proferita “non scompare, ma opera nello sfondo in modo tanto più formidabile in quanto viene avvertita”.

Ugualmente interessante è il paragrafo 4 del capitolo, Che cosa c’è di nuovo nel pensiero di Buddha? Se si guarda alla dottrina, alla terminologia, alle forme di pensiero – afferma Jaspers – non si trova nulla che già non fosse presente nell’India di quel tempo: esistevano gli asceti e le loro comunità, l’idea della liberazione attraverso la conoscenza, lo yoga, le rappresentazioni del mondo che il Buddha accettò. Il punto è la categoria di nuovo, che, “usata come criterio di valore, è propria di noi occidentali moderni”.
Volendo comunque utilizzare tale categoria, costituisce allora una novità la “potente personalità del Buddha”, la straordinaria tensione della sua volontà, volta al superamento dell’ego. Ma proprio quel superamento è ciò che distrugge tale tensione, ogni legame del Buddha con gli interessi mondani, con il desiderio. “Egli stesso è divenuto impersonale: innumerevoli Buddha hanno compiuto nelle precedenti età cosmiche e compiranno in quelle future ciò che egli ora compie [..]. Egli è l’unico ma lo è come mera ripetizione”. È l’apparente paradosso “di una personalità che ha operato mediante la scomparsa di tutti i suoi tratti individuali”, una personalità “priva della coscienza occidentale e della coscienza cinese dell’individualità”.
Ugualmente nuovo è il fatto che egli lasciò cadere alcuni elementi fondanti della tradizione indiana, in particolare l’istituzione delle caste e la potenza degli Dei. Non li combatté, semplicemente tolse loro ogni importanza.
Inoltre, anche se il Buddhismo fu una dottrina aristocratica, che poteva essere intesa solo da persone “di alto rango spirituale”, il Buddha si rivolse a tutti gli esseri viventi indistintamente, non solo gli uomini, ma anche gli Dei e gli animali – diversamente da ciò che fecero religioni più recenti quali il Cristianesimo o l’Islam. Ognuno doveva apprendere le sue parole secondo il proprio linguaggio. Di qui la semplicità nell’espressione degli insegnamenti, la continua ripetizione delle idee, l’uso frequente di metafore, parabole, similitudini, versi.

Jaspers dedica quindi alcune pagine alla storia del Buddhismo: la divisione tra Hinayana e Mahayana, la scomparsa del Buddhismo dall’India e la sua diffusione nel resto dell’Asia, la trasformazione della “filosofia buddhista del cammino della salvezza [..] in una religione” nella quale il Buddha diviene un dio cui appellarsi. In particolare, Jaspers si dimostra piuttosto critico nei confronti del Buddhismo tibetano, nel quale “i vecchi metodi della magia divengono metodi buddhisti, la comunità monastica si trasforma in una Chiesa organizzata con un suo potere temporale”, analogamente a quanto avvenuto nel Cattolicesimo.
Positiva è invece la figura del bodhisattva, già presente nell’Hinayana ma assolutamente centrale nel Mahayana: “tutti gli esseri hanno innanzi a sé la prospettiva [..] di diventare un bodhisattva che non entra ancora nel nirvana soltanto perché dovrà ancora rinascere in qualità di un buddha per arrecare agli altri la salvezza”.
E comunque, nonostante gli Dei, i riti, i culti, le sette che la trasformazione della filosofia in religione ha portato con sé, “il buddhismo è assurto a unica religione universale che non conosce violenza né persecuzione di eretici né inquisizione né processo alle streghe né crociate. [..] esso non ha mai visto comparire alcun contrasto tra filosofia e teologia, tra libertà della ragione e autorità religiosa”, poiché “la filosofia è già di per sé azione religiosa. Rimane valido questo principio: il sapere è già liberazione e redenzione”.

Ma infine, “che significato hanno per noi il Buddha e il buddhismo?”. È una domanda imprescindibile, motivo per cui proponiamo qui, per esteso, la risposta di Jaspers:

Non dobbiamo di­menticare che nel Buddha e nel buddhismo scorre l’ac­qua di una fonte che noi occidentali ci siamo preclu­sa e che ci si trova qui di fronte a un limite dell’intel­ligenza umana. È necessario sentire la straordinaria di­stanza in cui si trova la serietà del buddhismo e vie­tarci ogni facile e sbrigativo tentativo di avvicinamen­to. Dovremmo prima cessare di essere quel che siamo per poter prendere essenzialmente parte alla verità del Buddha. La differenza qui in gioco non è quella che può sussistere tra due posizioni razionali, ma quella che riguarda la disposizione pratica e il modo di pen­sare nella loro essenza.
Ma al di là di ogni possibile distanza, non dobbia­mo perdere di vista l’idea che siamo tutti degli uomi­ni. Si tratta in ogni caso delle medesime questioni che riguardano l’esserci dell'uomo. Nel Buddha si è tro­vata e realizzata una grande soluzione di questo pro­blema e a noi spetta il compito di conoscerla e di in­tenderla secondo le nostre forze.
La questione è qui di sapere fin dove arriva la no­stra comprensione di ciò che noi stessi non siamo né possiamo realizzare. È nostra esigenza che questa com­prensione si avvicini sempre più alla sua meta, in un processo senza limiti, quando però ci si astiene da una comprensione frettolosa che si presume definitiva. Nel nostro intendere teniamo deste delle possibilità di noi stessi che ci sono profondamente chiuse e ci vietiamo di erigere la nostra condizione storica in una verità as­soluta e definitiva.
Abbiamo il diritto di affermare che tutto ciò che è detto nei testi buddhistici si rivolge alla normale co­scienza desta e deve perciò da questa coscienza poter­si intendere almeno fino a un certo punto.
È un grande fatto storico che sia stato possibile con­durre una vita come quella del Buddha che egli rea­lizzò in sé e che, inoltre, sia stato possibile in Asia fi­no a oggi vivere secondo il buddhismo. Questa sem­plice constatazione dimostra quanto sia problematica la condizione umana. L’uomo non è ciò che è stato de­terminato una volta e per sempre, ma è aperto. Egli non riconosce una sola soluzione o una sola realizza­zione come l’unica esatta. Il Buddha è la realizzazio­ne di un’essenza umana che non riconosce alcun com­pito positivo riguardo al mondo, ma, dentro il mon­do, abbandona il mondo stesso. Non lotta, non con­trasta, ma vuole soltanto dissolvere l’esserci fondato sull’ignoranza, e lo vuole in modo così radicale da non aspirare nemmeno alla morte, perché ha trovato al di sopra della vita e della morte il luogo dell’eternità. È vero che nel mondo occidentale si possono trovare de­terminazioni analoghe da far valere di fronte a questi atteggiamenti buddhisti, come l’imperturbabilità, la liberazione mistica dal mondo, il non contrastare i mal­vagi, che sono propri della figura di Gesù. Però in Oc­cidente tutto ciò è soltanto un abbozzo o un elemen­to particolare, mentre in Asia assurge a valore totale e perciò ha un altro significato.
Resta perciò tra questi due mondi una reciproca ten­sione stimolante, e come fra le singole persone una si oppone all’altra così, in grande, è un mondo spiritua­le che si oppone a un altro. Come nei rapporti perso­nali, nonostante l’amicizia, la confidenza, la benevo­lenza, si può talora avvertire una subitanea lontanan­za tra gli individui, come se io e l’altro sfuggissimo in direzioni opposte e fossimo separati dall’impossibilità di esser altro, senza però volerlo riconoscere, poiché non cessa mai di operare l’esigenza di riferirci assieme al centro dell’eternità che ci fa cercare incessantemen­te una migliore intesa reciproca, ebbene, la stessa si­tuazione si è verificata tra l'Asia e l'Occidente”.


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Note

1. Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, Ed. UTET, vol. III, pag. 849 e segg.
2. Cit. in N. Abbagnano, pag. 850
3. Cit. in U. Galimberti, Esistenzialismo ed ermeneutica, in: AA.VV., Storia del pensiero occidentale, Ed. Curcio, vol. VI, pag. 1543
4. Id., pag. 1548
5. N. Abbagnano, pag. 858
6. Id.
7. Id., pag. 859
8. Cit. in D. Smizer, Periodo assiale e periecontologia”, in: http://digilander.libero.it/moses/jaspers04.html
9. Id.
10. K. Jaspers, Socrate, Buddha, Confucio, Gesù – Le personalità decisive, Ed. Fazi. Tutte le citazioni successive sono tratte da questo testo. Il capitolo dedicato al Buddha si trova da pagina 43 a pagina 84.
11. In effetti, nel Sutra in cui il Buddha li espose, gli otto aspetti del Sentiero sono così elencati: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione. Cfr. il Discorso della messa in moto della ruota del Dharma, in: La rivelazione del Buddha – I testi antichi, Ed. Mondadori, pag. 8. Si notano alcune differenze rispetto all’esposizione di Jaspers, che non sembrano dovute soltanto ad una diversa traduzione. 

Da leggere

U. Galimberti, Esistenzialismo ed ermeneutica, in: AA.VV., Storia del pensiero occidentale, Ed. Curcio

K. Jaspers, Socrate, Buddha, Confucio, Gesù – Le personalità decisive, Ed. Fazi