Il
saggio di Silvia Ronchey è stato
pubblicato su la Repubblica del 30 novembre 2017 con il titolo:
Buddha,
Dante e il segreto di Francesco
Francesco
e Buddha. Un accostamento logico, per chi si interessa anche solo un po' di
storia delle spiritualità e delle religioni, eppure inusuale, almeno in
apparenza, quello tracciato da papa Bergoglio nel suo viaggio in Birmania,
davanti al consiglio supremo sangha dei monaci buddisti a Rangoon, tra le
parole del Buddha e di san Francesco. Un riferimento a quella che non a caso
Bergoglio ha chiamato la “sapienza” francescana, a indicare una volta di più
una profonda conoscenza del francescanesimo nel papa che per primo ha scelto il
nome di Francesco, unita a una altrettanto profonda aderenza, nel primo papa
gesuita, alla tradizione della Compagnia di Gesù. Come sempre dietro le sue
parole solo in apparenza semplici c’è una sofisticata cultura e uno strato
molteplice di rimandi e significati destinati ad essere intesi, per dirla coi
vangeli, da chi ha orecchie per intendere. Spesso, e specie di questi tempi, si
sono accostati Buddha e Cristo. Un accostamento non solo legato alla crescente
diffusione del buddismo in occidente, ma collegato a un sincretismo antico, che
dalla predicazione nestoriana e manichea attraverso il culto medievale,
bizantino, poi occidentale, di “san Buddha” (Ioasaf, metamorfosi cristiana del
bodhisattva venerato nel sinassario costantinopolitano e poi incluso da Baronio
e Bellarmino nei Martirologio Romano, al tempo della Controriforma) arriverà a
Tolstoj, a Hesse, a Thomas Merton. Non si era invece mai sentito, almeno nella
cultura diffusa, né certo dalle labbra di un papa, accostare direttamente
Buddha e Francesco. Eppure anche questo è un accostamento antico, che si trova,
come la lettera rubata di Poe, sotto gli occhi di tutti. Lo si può scorgere, a
guardare bene, nel testo più noto e diffuso della letteratura italiana in
particolare e medievale in generale, la Commedia di Dante. Nell’undicesimo
canto del Paradiso, in quello che viene di solito chiamato l’Elogio di
Francesco (vv. 43 sgg.), là dove Dante prende a narrarne la storia a partire da
una descrizione geografica minuziosa e visionaria, quasi aerea, del luogo di
nascita tra la “fertile costa” che digrada verso la valle di Spoleto e verso
Perugia e il “grave giogo” montano del Subasio che incombe opprimente (“e di
retro le piange”) su Nocera e Gualdo Tadino, due terzine hanno fatto riflettere
quanto meno per la stranezza e ricercatezza delle rime che precedono
l'affiorare, nella toponomastica umbra, di un nome inaspettato: quello del
Gange. Dalla cortina di monti appena evocata (“Di questa costa”), nel punto
dove si fa meno ripida (“là dov’ella frange / più sua rattezza”), scrive Dante,
“nacque al mondo un sole, /come fa questo tal volta di Gange” (vv. 48-51).
L’evocazione improvvisa del fiume indiano, folgorante quanto l’epifania di un
nuovo sole, annunciata dai verbi “piange” e “frange”, ha dato da pensare agli
studiosi, che l’hanno in genere interpretata, non senza esitazioni, come mera
espressione di un punto cardinale: l’oriente, da cui appunto sorge il sole. Non
fosse che la parola Oriente ricorre due versi dopo, a identificare il borgo
stesso di nascita di Francesco: Assisi, che Dante denomina direttamente
“Ascesi”, ma che, aggiunge drastico, è limitativo chiamare con questo nome e
non denominare invece tout court Oriente (“Perché chi d'esso loco fa parole /
non dica Ascesi, che direbbe corto, / ma Oriente, se proprio dir vole”).
Possiamo
dire che in questa elaborata evocazione del manifestarsi al mondo di un
illuminato, che sorge all’umanità come “fa a volte” dal Gange, in un luogo il
cui nome già evoca la disciplina ascetica degli antichi monaci orientali, ma
che di fatto è di per sé un Oriente, si avverte l’eco della profezia della
venuta di quel nuovo Buddha, la cui rinascita è attesa nella letteratura
canonica di tutte le scuole buddhiste? La questione è più complessa. Il canto
XI del Paradiso è stato costruito da Dante in maniera simmetrica al XII, quello
su san Domenico. Il comune riferimento al sole e il ricorrere dell'espressione
“tal volta” eliminano ogni dubbio sul fatto che i due passi vadano letti
insieme. Ma, facendolo, non si può non concludere che, dei due pilastri della
cristianità, uno, Francesco, è considerato da Dante “orientale”. Quanto al
Gange, ricorre altre due volte nella Commedia, in due passi del Purgatorio (II,
5 e XXVII, 4). Paragonando le tre occorrenze, non si può non concludere che per
Dante l’origine della particolare illuminazione portata all’umanità dal “sole”
Francesco è l’Oriente e che con Francesco ha inizio un nuovo ciclo. Sarebbe
quindi certamente troppo dire che l'intenzione di Dante è indicare in Francesco
un Maitreya, un “re del mondo” che tramite l’illuminazione completa
moltiplicherà i suoi discepoli unendo tutte le scuole. Ma nelle due terzine
dell’undicesimo del Paradiso non si può non avvertire almeno un’eco di quella
tradizione orientale, almeno una remota conoscenza della dottrina buddista, che
non stupirebbe troppo in Dante e si aggiungerebbe alle sue sorprendenti
conoscenze della mistica medievale globale.
Una
sterminata letteratura è stata dedicata dai dantisti al rapporto di Dante con
le tradizioni mistiche orientali: a volte in un filone quasi fantasy come
quello del Dante di Guénon, preceduto e seguito da una pletora di altri studi e
letture esoteriche della Commedia; a volte in saggi rigorosamente accademici,
come ad esempio, in Italia, quelli di Marco Ariani, o in studi particolari sul
rapporto tra Commedia, buddismo e induismo. Una altrettanto sterminata
letteratura è stata dedicata dai francescanisti al rapporto privilegiato e
intenso dei francescani con l’oriente, vicino ed estremo. Un fenomeno di
portata colossale, di cui solo una pallida traccia affiora dai meravigliosi
frammenti bizantini della predica di Francesco agli uccelli della Kalenderhane
Camii, oggi al Museo Archeologico di Istanbul. Sappiamo che già nel XIII secolo
i francescani tornarono dall'oriente con repertori accurati di preghiere
buddhiste ed elenchi dei bodhisattva. Pensiamo a un personaggio come Giovanni
da Montecorvino, vissuto a Pechino dal 1294 al 1328, fatto dal papa vescovo di
Khan Baliq. I francescani dei primi del Trecento avevano probabilmente più
informazioni sul buddismo degli intellettuali di epoche successive. Il punto è
cosa fecero di queste informazioni. Certamente la messe di materiali circolò
per via orale, nei cenacoli intellettuali italiani ed europei. Ma non innescò
alcun orientalismo. Bisognerà aspettare, per questo, i gesuiti del Seicento.
Ed
ecco, il cerchio si chiude. Che un papa gesuita, devoto di Francesco tanto da
prenderne il nome, sette secoli dopo la stesura della Commedia e il circolare
in Italia e in Europa di una visione che, se non assimilava direttamente
Francesco al Buddha, certamente usava per descriverne la statura mistica
categorie e immagini vividamente orientali, decida di avvicinare esplicitamente
i due sapienti, di presentarli contigui, è un fatto storico. Chi ha orecchie
per intendere, intenda.
Di
Silvia Ronchey si legga il recente libro:
La
cattedrale sommersa. Alla ricerca del sacro perduto, Ed. Rizzoli