giovedì 27 settembre 2012

UNISABAZIA 2005/06 - 1 - L'uomo e il mondo nella tradizione indiana

A partire da qui, verranno pubblicati tutti i testi che dal 2005 in poi sono stati utilizzati nei corsi tenuti presso l'Unisabazia, in un primo tempo sotto forma di appunti e schede, successivamente come vere e proprie dispense di lunghezza variabile dalle 3 alle 6 cartelle ciascuna.


Il Buddhismo, "eresia" dell'Induismo



Il mondo del Buddha

Già nel titolo del corso, e lo si farà in tutto il suo svolgimento, si è usato, per comodità di esposizione, il termine “buddhismo”.
E’ bene precisare che tale termine è però inesatto e fuorviante (e la stessa cosa vale per “induismo”).
Inesatto, perché la parola “buddhismo” non è esistita in India se non a partire dall’età del colonialismo inglese, francese e portoghese. Infatti, è nata in Europa nel periodo dell’Illuminismo ed è stata poi esportata proprio nelle terre di origine di quella stessa tradizione!
Fuorviante, in quanto tutti gli “-ismi” che sono fioriti in Occidente dal 1800 in poi indicano o delle ideologie, cioè false coscienze che velano la reale conoscenza delle cose così come sono, oppure forme culturali, spirituali, religiose, ormai sclerotizzate, cristallizzate, rispetto alla vitalità ed alla freschezza delle esperienze originarie da cui sono scaturite.
Per indicare l’insegnamento del Buddha (e non solo) si usava, e si usa tuttora, la parola Dharma, (dalla radice dhar = mantenere, sostenere), che nella cultura indiana ha un’immensa importanza. Essa non è traducibile in italiano o in altre lingue occidentali con un unico termine, e richiede sempre lunghe precisazioni, a partire dal contesto in cui è inserita.
In sanscrito (l’antica lingua dotta dell’India tradizionale, che, come il greco e il latino, trae origine dal ceppo linguistico indo-ariano) il termine dharma riveste molteplici significati:

- dottrina, insegnamento, specialmente di tipo spirituale, religioso
- legge, giustizia, retto comportamento, dovere, Legge Cosmica
- i fenomeni
- la Realtà Ultima (la Verità intesa come la Realtà così come essa è), ecc.

Si dovrebbe pertanto parlare di Dharma, o Buddhadharma, o anche Buddhayana (yana = veicolo). Ma è bene non attaccarsi troppo alle parole, per cui, una volta chiariti i suoi limiti, il termine “buddhismo” andrà benissimo!


La vicenda del Buddha storico si svolge nel VI secolo a.C. Il territorio è quello dell’attuale Nord-Est dell’India, nella pianura del Gange, ai confini tra il Nepal e quella che gli abitanti di quel tempo non chiamavano India (nome molto più recente), bensì Jambudvipa (il Continente dell’albero che esaudisce i desideri), oppure Bharata (il nome di una grande tribù ariana), o anche Prithivi (la Terra).
Sotto tutti gli aspetti, è un periodo di grandi mutamenti. Dal punto di vista sociale si assiste al passaggio da “repubbliche” agrarie fondate sui clan, con importanti gruppi di elites aristocratiche e religiose, alla formazione di monarchie assolute, di grandi centri urbani, di economie monetarie, e alla nascita di classi sociali di tipo mercantile e di proprietari terrieri.
Infatti, nei Veda, i testi fondamentali della tradizione religiosa e culturale indiana, si trovano soprattutto descrizioni di vita rurale, mentre nei Sutra (raccolte di discorsi) buddhisti si hanno in prevalenza immagini della civiltà urbana.
Fulcro della vita cittadina è il Raja (il re, il sovrano - latino: rex) che è a sua volta legato al suo superiore, il Maha Raja (il grande sovrano – latino: magnus).
Nei vasti territori dell’India di quel tempo troviamo quindi sia i regni, sia le repubbliche (in cui il raja è una carica elettiva), sia le tribù (in cui il raja è designato dagli anziani).
Il futuro Buddha nasce in una repubblica, quella dei Sakya, all’interno della “casta” dei guerrieri.
Quello delle “caste” è un elemento fondamentale della vita dell’India antica (e non solo antica), anche se il sistema castale, nel VI sec. a.C., non è ancora così rigido e strutturato come nei secoli successivi, fino all’indipendenza dell’India.
L’organizzazione sociale delle caste è un riflesso dell’ordine cosmico. Quella che in origine è una spiegazione mitico-religiosa della creazione, diviene anche la base di un sistema sociale. Nei Veda, le caste si originano dalle diverse parti del corpo dell’Uomo Cosmico:
- dalla testa nascono i brahmani (i sacerdoti, gli intellettuali)
- dalle braccia nascono gli ksatriya (i militari, i politici)
- dalle gambe nascono i vaisya (i commercianti, gli agricoltori)
- dai piedi nascono gli shudra (i servi).
Questa identità tra macro-cosmo (l’Uomo cosmico, l’ordine universale) e micro-cosmo (il corpo dell’individuo, il corpo della società) è uno dei punti basilari della cultura tradizionale indiana.
Scrive Sarvepali Radhakrishnan, filosofo indiano, già Presidente della Repubblica dell’India: “La vita esteriore dell’uomo deve esprimere il suo essere interiore: la superficie deve esprimere la realtà profonda. Ogni individuo ha la sua natura che si è formata con lui ed è suo dovere renderla di valore attuale nella vita”.
A proposito della parola “casta” (dal latino “castus” = puro, da cui casto, castità…), si deve osservare che il termine è stato usato dai Portoghesi, ma non è molto corretto, e non è da intendersi nel senso di “classe sociale” come spesso avviene in Occidente. Il termine corretto, in sanscrito, è varna, che significa colore, o anche lettera dell’alfabeto, e che indica, più che una gerarchia, una organizzazione della società (come i colori all’interno dell’arcobaleno).
Infatti, i brahmani sono associati al colore bianco, gli ksatriya al rosso, i vaisya al giallo, gli shudra al nero.
E’ molto probabile che, in origine, varna indicasse il diverso colore della pelle, più scura quella degli abitanti autoctoni del Nord, spinti verso il Sud dagli invasori ariani, di carnagione chiara.
Per quanto riguarda i quattro varna, si legge nella Bhagavad Gita (“Il Canto del Beato”, uno dei testi più importanti dell’Induismo), al cap.XVIII :

41. “Gli atti dei brahmani, degli ksatriya, dei vaisya e degli sudra, (…) sono distinti a seconda delle qualità che hanno origine nella natura particolare di essi.

42. La serenità, il controllo di sé, la vita ascetica, la purezza, la tolleranza e la rettitudine sincera, la sapienza, la conoscenza e la compassione, tale è l’agire proprio del brahmano e che trae origine dalla sua stessa natura.

43. L’eroismo, il vigore, la fermezza, la destrezza, il non fuggire nemmeno nel pieno della mischia, la generosità, avere l’orgoglio del comando, questo è l’agire dello ksatriya, che nasce dalla dalla sua natura stessa.

44. L’agricoltura, l’aver cura del bestiame, la mercatura, costituiscono l’agire di un vaisya, agire che nasce dalla sua natura stessa; l’operare che ha il carattere del servire è proprio dello shudra e nasce dalla sua stessa natura”.

Gli insegnamenti del Buddha si muoveranno, come si vedrà, nella direzione di una severa critica nei confronti di queste concezioni. Già in questo senso si può affermare che il buddhismo nasce e si sviluppa come “eresia” dell’induismo.
Altrettanto codificata dalle concezioni della tradizione vedica è la vita umana, che è classificata secondo quattro finalità, da non considerare (le prime tre) secondo un ordine gerarchico né temporale:
1) Artha, il benessere, il possesso dei beni materiali, gli affari, il lavoro. Esiste, di quell’epoca, un vero e proprio trattato scientifico su tale argomento, l’Arthashastra, il “Trattato della scienza della ricchezza”.
2) Kama, l’amore, il piacere dei sensi, il godimento estetico. Molto famoso anche in Occidente (ma poco letto per intero) è il Kamasutra, un vero e proprio trattato sull’amore, sulla sessualità, sul rapporto uomo/donna, sulla famiglia,… E’ interessante notare che il dio hindu dell’amore, Kama, è raffigurato con arco e frecce, come il Cupido latino.
3) Dharma, i doveri religiosi e morali, le prescrizioni sociali, rituali,… Dharma è la dottrina dei diritti e dei doveri di ogni membro della società, è la legge e lo specchio di tutte le azioni morali.
4) Il quarto scopo della vita umana si pone al di fuori, e certamente al di sopra, dei primi tre. Esso è moksha, la liberazione spirituale, il fine ultimo, il massimo bene umano. E’ liberazione dall’ignoranza, dalle passioni del mondo, visto come illusione.
A proposito della moksha, non si può non aggiungere che in epoche più vicine a quella del Buddha la moksha stessa (o mukti) indica non solo liberazione dai limiti del rapporto corpo/mente, ma anche il conseguimento dell’immortalità. Essa consiste nel riassorbimento dell’atman, il Sé individuale dell’uomo, con il Brahman, il Sé cosmico, universale.
In realtà, i due aspetti, atman e Brahman, non sono mai separati, distinti. La distinzione è il frutto dell’ignoranza, degli offuscamenti della mente umana, annebbiata dal velo di Maya, l’illusione cosmica. Atman e Brahman sono come le onde dell’oceano: i sensi le percepiscono, erroneamente, come separate, laddove invece vi è identità, rivelata da una mente libera dall’illusione. La vera conoscenza, vidya, si identifica quindi con la liberazione, che è cessazione del ciclo vita-morte-rinascita (il samsara), a cui tutti gli esseri viventi sono soggetti. E’ la dottrina della reincarnazione, regolata dalla famosa e spesso mal compresa legge del karma (legge di causa ed effetto delle azioni, parole e pensieri umani). Dottrina che sarà anch’essa oggetto di critica e riformulazione negli insegnamenti del Buddha.
A partire dai quattro scopi della vita vengono istituiti nelle dottrine vediche i quattro ashrama, gli stadi della vita dell’uomo:
1) il brahmacharya ashrama, quello dello studente
2) il grihasta ashrama, il capo famiglia che vive nella società
3) il vanaprastha ashrama, il capo famiglia che vive appartato dal mondo sociale
4) il samnyasa ashrama, l’abbandono del mondo e il ritiro nella contemplazione.
Da quanto esposto si rende evidente la primaria importanza attribuita dalla filosofia, dalla religione, dalla cultura tradizionale indiana ai problemi pratici, ed il suo carattere soteriologico. Scrive S. Radhakrishnan: “In India la filosofia è per la vita; la verità deve essere vissuta. La mèta dell’indiano non è di conoscere soltanto la realtà ultima, ma di realizzarla e diventare uno con essa”. Questo carattere essenzialmente pratico, esperienziale, soteriologico, delle dottrine hindu, farà assolutamente parte dell’insegnamento del Buddha.
Si noti però che la liberazione, la moksha, non è la negazione di un negativo: il mondo non è eticamente negativo, non è il Male. La liberazione è una migliore presa di consapevolezza. Fu questo uno degli errori che commise il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788/1861) nel presentare la filosofia indiana ed il buddhismo all’Europa.
Il dualismo bene/male è estraneo alla filosofia indiana. Le dottrine indiane hanno invece un profondo senso dell’unità, che viene cercato nell’interiorità dell’uomo.
La stessa ricerca di unità è visibile anche nella suddivisione della filosofia indiana classica nelle sei scuole “ortodosse” (astika) dell’Induismo:
1) Vaisesika
2) Nyaya
3) Samkhya
4) Yoga
5) Purva Mimamsa
6) Vedanta.


OM, il simbolo dello Yoga

Sono i sei Darshana (dalla radice drsh = osservare), i sei “punti di vista”, punti di osservazione della realtà diversi, distinti, ma non antagonisti tra loro (si osservi la differenza con le scuole filosofiche e teologiche dell’Occidente, in perenne conflitto tra loro).
Accanto a queste scuole “ortodosse” vi erano poi le scuole materialistiche, quelle jaina e quelle buddhiste, considerate non-ortodosse (nastika), ma in un ambito di tolleranza e pacifica convivenza. In questo senso gli insegnamenti del Buddha erano considerati eretici, in quanto, a differenza dei sei darshana, non accettavano l’autorità dei Veda.
Nel VI secolo, parallelamente alle trasformazioni in atto nella società, si assiste ad una crisi della religione vedica, che di quella società è radice ed espressione.
Si parla di religione vedica in quanto l’origine dell’induismo si trova nei testi sacri chiamati Veda, parola che significa conoscenza, sapienza, visione, e che nasce dalla radice “vid” (= sapere).
Da tale radice hanno avuto origine, attraverso la lingua latina, termini come vedere, visione, video ecc., e questo conferma ancora una volta il carattere esperienziale, pratico, delle tradizioni filosofico-religiose dell’India, e dell’Oriente in generale.
L’origine dei Veda si situa storicamente a partire da circa 2000 anni avanti Cristo (alcuni studiosi parlano di 3000, altri solo di 1000). Secondo la tradizione, i Veda sono stati “uditi” dai Rishi, gli antichissimi veggenti, in profondi stati di assorbimento meditativo. Non sono quindi “rivelazioni” da parte di divinità, bensì pre-esistono alle divinità stesse, e la loro conoscenza è il risultato dello sforzo umano. Sono poi stati tramandati oralmente per secoli in sanscrito, la lingua sacra (Devanagari, la lingua degli dei) che con le sue 50 lettere copre tutti i suoni possibili. I Veda sono in numero di quattro (Rig Veda, Yajur V., Sama V., Atharva V.) e sono raccolte di inni, preghiere, canti, formule, prescrizioni, ecc., anche di altissimo valore letterario e poetico.
La religione dei Veda consiste in una elaborata mitologia, con un certo numero di divinità (33, ma anche migliaia), ripartite in tre classi: della terra, del cielo, dello spazio intermedio. Al di là di questa molteplicità, l’Universo è in realtà costituito da una unica Realtà Ultima. E’ a causa dell’ignoranza (avidya, il contrario di vidya, la conoscenza) che l’uomo percepisce la molteplicità come permanente e non vede l’unità delle cose. Le divinità stesse sono diverse manifestazioni dell’unica realtà divina. Ad es. il dio Brahma, il “creatore”, è la personificazione del Brahman impersonale. Quindi, parlare dell’induismo come di una religione politeista è quantomeno impreciso ed insufficiente.
Altra divinità, centrale nei Veda, è Indra, signore degli dèi, la cui caratteristica principale è il vigore, la potenza. E’ personificazione del principio dell’energia che permette ai pensieri e alle azioni di manifestarsi. Agni è invece il “dio del fuoco” (in latino il fuoco è “ignis”, ed in italiano esistono parole come ignifugo, ignizione). Per questo è legato ai sacrifici, in quanto è personificazione del principio stesso del potere del sacrificio. Divinità più nota in Occidente è Vishnu, che rappresenta il principio della conservazione dell’universo, mentre richiederebbe un discorso più lungo ed articolato, qui non possibile, Shiva, signore della danza che distrugge e ricrea il mondo, dio delle creature animali, signore dello Yoga. E lo stesso vale per Ganesha, il dio dal corpo umano e la testa di elefante, che compare più tardi nel pantheon indù. E per le figure femminili, per nulla secondarie rispetto a quelle maschili, delle potenzialità rappresentano l’attualizzazione: Parvati, Durga, Kali, Laksmi, Radha,….


Shiva, Signore dello Yoga
Centro della religione vedica è il sacrificio (ad es. il sacrificio del fuoco), durante il quale vengono offerti alla divinità riso, latte, burro, animali, anche in gran numero. L’offerta è accompagnata da recitazioni di inni e formule, in maniera assolutamente precisa. Un solo accento sbagliato rende inutile il rito. Con il sacrificio, la volontà del dio è propiziata, ma anche piegata. Il sacrificio supera la potenza del dio. Il sacrificio vedico è diverso da quello dei Greci e dei Romani, che è ringraziamento o richiesta al dio. Qui il sacrificio è un atto di “magìa”, in cui le manipolazioni, le recitazioni delle formule ecc. sono in relazione alle potenze cosmiche dell’universo, ed anche (unità di macro-cosmo e micro-cosmo) con le forze fisiche e spirituali dell’uomo.
Nel VI secolo, il secolo del Buddha, la religione vedica si è ormai ridotta a riti sacrificali meccanici, sempre più lunghi e complicati, e sempre più costosi a causa degli onorari dei sacerdoti, i soli ad essere in grado di compierli con la dovuta perfezione. Il contenuto della religione è quindi soffocato dalla proliferazione delle pratiche rituali. Ciò che conta non è più il sentimento di chi fa l’offerta, ma l’osservanza della forma. Per questo i sacerdoti, i brahmini, diventano sempre più importanti ed arroganti.
Inizia quindi un movimento spirituale non organizzato, in contrapposizione tollerante alla religione del sacrificio. Nascono quattro gruppi:
1) i seguaci delle Upanishad, testi più o meno segreti che andranno poi a far parte del canone vedico (la parola significa “stare seduti accanto” a chi rivela verità esoteriche).
2) I materialisti, la cui influenza nella cultura indiana è sempre stata molto marginale.
3) Gli asceti, che si fondano sullo sforzo di dare forma al futuro attraverso la rinuncia alla sessualità (non come penitenza, ma anzi per creare energia, forza spirituale), ai beni materiali, alla famiglia. Caratteristiche della vita ascetica sono i capelli incolti, la nudità anche totale (i “vestiti di vento”), gli eremi nelle foreste, i digiuni, il voto del silenzio, le posture del corpo… Spesso essi cercano però di ottenere, attraverso l’ascesi, delle facoltà sovrannaturali, o addirittura si pongono finalità di ordine materiale, in totale contraddizione con le loro stesse motivazioni originarie.
4) I mendicanti nomadi (samana), che abbandonano il lavoro e la famiglia, spinti dal desiderio di libertà e di conoscenza, rifiutando la tradizione vedica.
Con tutti questi gruppi “eretici”, o quantomeno critici nei confronti dell’ortodossia vedica, verrà in contatto Siddhartha Gautama Shakyamuni, il futuro Buddha, allorquando abbandonerà la reggia paterna ed un destino di potere, di gloria, di ricchezza, per cercare la Via che porta ad una autentica e definitiva guarigione dalla sofferenza per tutti gli esseri senzienti.

m. Mauro Ton Ko, Ottobre 2005

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