lunedì 5 novembre 2012

UNISABAZIA 2011/12 - Ganga dal rapido corso

Nel simbolo, il particolare rappresenta il generale
non come un sogno né come un’ombra,
ma come una subitanea rivelazione dell’imperscrutabile.


(Johann Wolfgang von Goethe)

Del mito e del simbolo

Secondo il dizionario etimologico di Giacomo Devoto, il termine “mito” deriva dal greco mythos, che indica “parola, narrazione, favola, leggenda”. Si noti, per inciso, che il termine “parola” in greco era reso anche con “logos” (da cui “logica”).
“Simbolo” trae invece origine da symbolon, ovvero “segno di riconoscimento”, che a sua volta deriva dal verbo symballo, composto di syn, “insieme”, + ballo “getto, metto”.
“Il mito – scrive lo studioso Julien Ries – è un racconto sacro ed esemplare che riferisce un avvenimento del tempo primordiale e fornisce all’uomo un senso determinante per il suo comportamento. Per la sua funzione simbolica, il mito svela il legame dell’uomo con il sacro. Infatti, nelle società tradizionali (1) dove mito e rituale sono collegati, il rituale permette la riattualizzazione del mito, il che vuol dire un ritorno alle origini e alla creazione: in questo modo esso diventa generatore di nuove forze”. Come disse Mircea Eliade, “il mito è uno strumento mentale dell’homo religiosus”, il quale grazie ad esso riscopre un avvenimento primordiale fondatore di una struttura del reale e di un conseguente comportamento umano. Il mito è quindi portatore di un linguaggio (non necessariamente verbale) e di un messaggio che riguarda la condizione umana.
Invece, nel linguaggio corrente delle società attuali, il mito è favola, leggenda, invenzione arbitraria, qualcosa che si contrappone alla realtà, alla verità. Storie raccontate da menti “primitive” per darsi ragione di ciò che oggi si crede che venga agevolmente spiegato dalla scienza. Al massimo, il mito è considerato il predecessore del “logos”, della razionalità: secondo questa visione, l’alchimia sarebbe allora una forma arcaica della chimica, o l’astrologia un modo superstizioso e primitivo di osservare il cielo, al contrario della scientificità dell’astronomia moderna.
In realtà l’uomo della società tradizionale scopre nel mito il modo del suo essere nel mondo, il mito esprime per lui “la verità assoluta perché racconta una storia sacra, cioè una rivelazione transumana che è avvenuta all’alba del Grande Tempo, nel tempo sacro degli inizi” (Eliade): in illo tempore, in quel tempo, in principio, c’era una volta...
Il mito è allora una storia vera, ed è vera in quanto “avvenuta agli inizi del tempo e che serve da modello ai comportamenti degli uomini” (Eliade).

Alcune brevi citazioni, qui proposte a titolo di esempi e come spunti per eventuali riflessioni personali, sulla traccia fornita sopra:

“In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era informe e deserta: le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio era sulla superficie delle acque. Dio allora ordinò: Vi sia la luce. E vi fu la luce” (Genesi 1, 1-3).

“Finalmente Dio disse: Facciamo l’uomo secondo la nostra immagine, come nostra somiglianza, affinché possa dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra” (Genesi 1, 26).

“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo. Questi era in principio presso Dio. Tutto per mezzo di lui fu fatto e senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è stato fatto” (Giovanni 1, 1-3).


Ganga, la Dea dal rapido corso

Lo stretto legame che intercorre tra la spiritualità umana e le acque (nelle loro varie forme: fiumi, sorgenti, oceani, pioggia…) è di per sé evidente. Ed infatti in India, paese in cui la cultura tradizionale è tuttora vitale, tutti i fiumi sono sacri, come pure le coste del mare, soprattutto nell’estrema punta meridionale del sub-continente. E quasi tutti i templi posseggono al loro ingresso una piscina in cui praticare le abluzioni prima di entrare nel santuario. In realtà, secondo la tradizione tutte le acque provengono da un’unica fonte, non geografica, ma cosmica. Poiché l’acqua è la vita. Cantava Tukaram (2) rivolto a Dio, contemplando le acque di un fiume:
“Il tuo nome è una zattera; ho traversato il fiume del mondo”.
Come annota lo studioso Heinrich Zimmer, “potentissimi fra le potenze da cui dipende l’abbondanza nel mondo sono i fiumi”, il Gange, la Jumna (o Yamuna), la Narmada, la Bhima...
E Ganga, prototipo di tutti i fiumi dell’India, è potente e amata Dea nel pantheon indiano. Ganga (“dal rapido corso”) è, si noti, figura femminile, come per gli Indiani è femminile il nome del fiume. Basterebbe questo fatto, ovvero la “mascolinizzazione” del nome ad opera della cultura occidentale, per indicare la distanza che separa la visione del mondo della tradizione spirituale da quella puramente geografica, scientista, della civiltà moderna (3).
Ganga è la personificazione della potenza generatrice (e quindi femminile), fecondatrice, delle acque, ed è quindi spesso assimilata, come sovente accade nella tradizione hindu, ad altri aspetti della dea-madre, quali Parvati, o Annapurna, dea del cibo e dell’abbondanza.
Molteplici sono gli appellativi di Ganga: Devabhuti (“che sgorga dal cielo”) Mandakini (la Via Lattea, significativa identificazione tra il mondo terreno e il Cosmo), Visnupadi (“piede di Visnu”, da cui Ganga è scaturita secondo uno dei tanti miti sulla sua nascita), Sukhada (“che concede la prosperità”), Mokshada (“che concede la liberazione”).
Ganga

Ganga è fonte di ricchezza per la popolazione, è grazia divina che scorre tangibilmente sulla terra e la rende feconda. Ma è anche fonte di salvezza spirituale (moksha), come afferma lo stesso dio Shiva in un testo dei Purana (4): Ganga “è fonte di redenzione… Mucchi di peccati accumulati dal peccatore in milioni di nascite vengono distrutti dal semplice contatto di un vento carico dei suoi vapori… Se un uomo comincia a bagnarsi nel Gange in un giorno di buon auspicio, vive felice nel mondo celeste di Visnu per un numero di anni pari al numero dei suoi passi”. L’immersione nelle acque, ovvero il contatto fisico con il corpo della Dea, trasforma e sublima come in un processo alchemico la natura del devoto. Il regno di Visnu nel quale egli si trova a vivere non è un luogo separato dal mondo umano, ma è il centro dell’esistenza di ogni essere, la fonte di ogni istante di vita. Da quel regno, rappresentato dall’alluce di Visnu, scaturiscono le acque di Ganga Visnupadi.

La Discesa di Ganga sulla Terra

Il mito della caduta di Ganga sulla terra è narrato nel Ramayana (5). Secondo il mito, un gruppo di eremiti era continuamente infastidito nelle proprie pratiche ascetiche da demoni, che, sebbene costantemente ricacciati nell’Oceano, ogni notte tornavano per disturbare i santi uomini. Essi chiesero aiuto ad un grande yogi dell’India del sud, Agastya, famoso per aver sviluppato per mezzo dell’ascesi una forte energia (6) nel plesso solare, che si manifestava nel potere divoratore dei suoi succhi gastrici (7). Agastya corse in aiuto dei suoi confratelli, ed inghiottì l’Oceano con i demoni che vi dimoravano. Ma questo provocò naturalmente una gravissima carestia, in quanto la terra era rimasta priva di tutte le sue acque. Toccò ad un altro asceta, il re Bhagiratha, risolvere il problema. Egli affidò le cure del regno ai ministri e si recò in un luogo sacro a Shiva. Lì praticò l’ascesi per mille anni, al fine di accumulare l’energia interiore sufficiente a piegare la volontà degli dèi, costringendoli a lasciare libera Ganga, la dea delle acque, che viveva nella Via Lattea. Gli dèi acconsentirono, ma si rese necessario l’intervento di Shiva, l’unico che avrebbe potuto reggere su di sé il peso di Ganga prima della sua caduta. Infatti, se fosse scesa direttamente sulla terra, a causa della forza delle sue acque avrebbe certamente distrutto il mondo intero. Bhagiratha si recò allora sull’Himalaya, dove viveva Shiva, immerso in profonda meditazione, indifferente alle sorti del mondo. Lì Bhagiratha proseguì le sue pratiche ascetiche, cibandosi di sole foglie e poi di sola acqua e aria, ritto su un solo piede con le braccia distese verso l’alto, per in intero anno. Shiva, colpito dall’energia spirituale sviluppata da Bhagiratha, acconsentì alla sua richiesta: le acque di Ganga caddero dal cielo sui lunghi capelli annodati sul capo di Shiva, Signore dello Yoga, che ne rallentarono la corsa, e scesero infine dolcemente dall’Himalaya verso la pianura, vivificando la terra indiana.
Shiva rallenta la caduta di Ganga
 Da un punto di vista strettamente materialistico il mito della caduta di Ganga può essere visto come il tentativo di una mente “primitiva” per spiegare l’origine (8) e la funzione di un così grande fiume, e magari come una superstiziosa modalità per ottenerne i favori. In realtà il mito della Caduta di Ganga esalta soprattutto il potere apparentemente sovrumano di figure come Agastya e Bhagiratha, i quali, si ricordi, sono invece uomini. E tale potere non è stato loro concesso da una divinità, ma è il frutto della loro volontà e delle pratiche yogiche a cui si sono sottoposti, accumulando un immenso tesoro di energia fisica e psichica, il tapas. Al centro del mito non c’è tanto la Dea, quanto piuttosto l’uomo, il quale, grazie alle sue forze e alla corretta pratica dello yoga, perviene ad una perfetta unità (9) di mente e corpo, attingendo così liberamente alle energie che pervadono il cosmo di cui l’individuo è parte integrante.
Nell’anno 2001 ben 70 milioni di pellegrini si sono ritrovati nella località di Prayag, nell’Uttar Pradesh, il sito più importante tra quelli legati al culto della Dea Ganga e al grandioso mito dell’Oceano di Latte, secondo il quale gli dèi avevano intrapreso la burrificazione dell’Oceano per estrarne il nettare dell’immortalità (in origine, nemmeno gli dèi erano immortali). Dopo la frullatura dell’Oceano di Latte, quattro gocce di nettare caddero sulla terra, in quattro luoghi dell’India (tutti legati alle acque dei fiumi), divenuti sacri e mete di pellegrinaggi. In ognuno di essi, ogni dodici anni (quindi ogni tre anni per l’insieme dell’India), si tiene il Kumbha Mela, la festa del vaso (kumbha), durante la quale decine di milioni di devoti si immergono ritualmente nelle acque della Ganga, o della Narmada, o della Yamuna, o della Godavari. Così come altrettanti milioni di persone fanno in qualsiasi giorno dell’anno lungo le rive di tutti i fiumi e i mari dell’India.
Cerimonia sul Gange
Il sito di Prayag (più noto come Allahabad, nome imposto dai dominatori musulmani) riveste però una particolare importanza, che ci permette di indagare più a fondo il significato e il ruolo del mito nella vita di coloro che seguono una via spirituale. Infatti Prayag è il luogo in cui confluiscono la Yamuna (Jumna) e la Ganga. Fin qui la geografia terrestre. Ma nella più complessa “cosmografia”, a Prayag si incontrano Ganga, Yamuna ed un terzo fiume, mitico, sotterraneo, forse visibile all’epoca dei Veda, i grandi testi della tradizione antica: è la Sarasvati, la cui potenza è anch’essa personificata nella Dea che ha lo stesso nome, protettrice dei poeti, apportatrice di fecondità e purezza. Di qui, da questa triplice, cosmica confluenza, l’importanza della località per i devoti.
Ma se ci si fermasse qui, si rimarrebbe alla superficie del mito. Si è detto che secondo la visione tradizionale del mondo, ciò che è in alto è come ciò che è in basso, il macro e il micro-cosmo sono l’uno riflesso dell’altro.
E nel microcosmo umano, il corpo, è possibile quindi ritrovare la “confluenza” dei tre fiumi così come avviene nel macrocosmo terrestre.
Infatti, secondo la fisiologia dello Yoga (in particolare lo Hatha Yoga), il corpo umano è corpo fisico, materiale, ma è anche corpo “sottile”, un micro-cosmo che corrisponde al macro-cosmo. Il respiro è identificato con i “venti” cosmici, la colonna vertebrale è l’asse cosmico, il monte Meru, intorno al quale tutto ruota. Braccia e gambe sono i quattro continenti, gli occhi sono il Sole e la Luna, ecc.
Il corpo (in realtà si tratta di cinque corpi, o involucri, dal più grossolano, che è quello percepibile con i sensi ordinari, fino al più sottile) è attraversato da un certo numero di canali, detti nadi, attraverso i quali circola l’energia vitale, che si trova, allo stato latente, in centri chiamati chakra (alla lettera cerchio, ruota). I chakra più importanti sono sette (quattro secondo altre tradizioni) e sono situati all’incirca in corrispondenza dei plessi corporei: sacro-coccigeo, sacrale, epigastrico, cardiaco, laringeo-faringeo, cavernoso, e sulla sommità del capo. Quanto alle nadi, le “arterie” lungo cui scorre l’energia vitale che viene risvegliata e controllata attraverso la pratica dello yoga, quelle principali sono tre: ida, pingala e sushumna. Sushumna nadi si estende lungo la colonna vertebrale, dalla base fino alla testa. Ida (il canale lunare) e pingala (solare) sono situate a sinistra e a destra di sushumna, e sboccano rispettivamente nella narice sinistra e in quella destra. I canali del corpo sottile non sono per nulla astratti, ma il non-iniziato alle pratiche profonde dello Yoga non li percepisce in quanto essi sono ostruiti dalle impurità. Devono quindi essere purificati, attraverso lo Yoga: l’etica (yama e niyama), le posture (asana), il controllo dei soffi, nella loro forma grossolana, il respiro, ed in quelle sottili (pranayama), il controllo degli organi sensoriali (pratyahara), la meditazione (dhyana, dharana, samadhi).
In tal modo lo yogi perviene, mediante la purificazione delle nadi, alla liberazione delle energie sottili ed al loro libero fluire verso l’alto attraverso i vari chakra. Ida e pingala vengono unificate attraverso la “via di mezzo”, sushumna. Il praticante diviene una cosa sola con il corpo cosmico, e a quel punto inizia la trascendenza del Cosmo stesso, la sua distruzione mediante l’unificazione dei contrari (ida/pingala, Luna/Sole): l’energia liberata (kundalini) si unisce con il Cosmo, Dio, Shiva, quale che sia il nome, alla sommità del capo, il chakra superiore, il loto dai mille petali (sahasrara chakra). Finalmente, Ganga, Yamuna e Sarasvati si incontrano, nel corpo del devoto e nel corpo del Cosmo: è la liberazione da ogni impurità, da ogni sofferenza, dal ciclo delle rinascite.

Note

1) Per “società tradizionale” si intende una civiltà caratterizzata dal riconoscimento di un ordine superiore a quello umano e temporale, da cui trarre i valori necessari per raggiungere un più alto sistema di conoscenza e per dare all’esistenza un significato veramente profondo. Si parla di società tradizionali non all’interno di una contrapposizione Oriente/Occidente, bensì in antitesi alla civilizzazione moderna, sia occidentale sia orientale, caratterizzata invece dalla sistematica negazione di ciò che è superiore all’uomo e da forme di vita e di conoscenza che non guardano al di là della realtà contingente, materiale, temporale.
2) Tukaram (1608-1650): devoto del dio Krishna, è il più grande fra i santi dello stato indiano del Maharashtra. Egli dovette affrontare una vita di miseria e severa povertà. Nonostante ciò, rimase sempre imperturbabile di fronte alle avversità e saldo nella sua devozione a Dio per il quale compose meravigliosi canti.
3) Nella famosa Fontana dei Quattro Fiumi di Piazza Navona in Roma (Bernini, 1651) il Gange è rappresentato (al pari del Nilo, del Danubio e del Rio della Plata) come un muscoloso gigante barbuto poggiante su un remo (opera di Claude Poussin).
4) I Purana sono antichissime raccolte di testi della letteratura indiana successiva ai Veda. In essi sono trattati argomenti quali la creazione e la distruzione degli universi, le genealogie divine, le storie delle dinastie regali, le arti militari, la medicina, la geografia... I Purana sono divisi in varie categorie: Brahma Purana., Visnu P., Garuda P., Shiva P. ecc. – Ebbero la funzione di far pervenire gli insegnamenti anche alle categorie sociali “inferiori” e alle donne.
5) Il Ramayana è il primo poema dell’antica India, e risale nella sua forma attuale al I – II sec. a.C. Ne è autore il leggendario Valmiki, ed è composto da circa 24mila strofe. Il Ramayana e il Mahabharata (composto da ben 100mila strofe) sono i grandi poemi dell’epica indiana, pari per importanza all’Iliade e all’Odissea.
6) E’ il tapas, termine talvolta erroneamente tradotto con penitenza, mortificazione; esso significa invece calore, ardore, fervore. Da cui l’italiano tepore. Lo sviluppo dell’energia tapas ricorre anche nelle pratiche del buddhismo tibetano, dove è noto come gtum-mo (pron. tummo).
7) E’ evidente il riferimento all’energia divoratrice del sole, specialmente nell’India Meridionale. L’identificazione tra il microcosmo (qui, il corpo umano) e il macrocosmo (l’Universo) è uno dei tratti tipici delle culture tradizionali.
8) Ganga è figlia di Himavat, personificazione divina dell’Himalaya; Himavat è padre anche di Parvati, la sposa di Shiva, con la quale talvolta Ganga viene identificata.
9) Il termine yoga deriva dalla radice sanscrita yuj, che significa unire, aggiogare (cfr. il latino iugum, il giogo che unisce i buoi al carro).

Testi citati


Devoto, Dizionario etimologico, Ed. Le Monnier
Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini
Eliade, Miti sogni e misteri, Ed. Rusconi
Ries (a cura di), Il mito, Ed. Jaca Book
Zimmer, Miti e simboli dell’India, Ed. Adelphi
Nivedita – Kumaraswami, Miti dell’India e del Buddhismo, Ed. Laterza
Eliade, Lo Yoga – Immortalità e libertà, Ed. Sansoni

m. mauro ton ko, 2011

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