lunedì 15 ottobre 2012

UNISABAZIA 2007/08 - Il Silenzioso degli Shakya

Buddha Śakyamuni, il “Silenzioso” degli Śakya

Il maestro zen Yaoshan scrisse il carattere “buddha”
e chiese al discepolo Daowu:
“Quale è questo carattere?”
Daowu rispose: “buddha”.
Il maestro disse: “Che chiacchierone che sei!”


Come è noto, colui che divenne il Buddha, il Risvegliato, nacque a Lumbini (tra gli attuali Stati di India e Nepal) nel VI sec. a.C. con il nome di Siddhartha della famiglia Gautama, nel clan Śakya (un clan guerriero di cui il padre, Śuddhodana, fu l’ultimo re), ed è universalmente conosciuto come Buddha Śakyamuni, il “Saggio” degli Śakya. Infatti il termine muni viene costantemente tradotto con i vocaboli: saggio, sapiente, persona ispirata, asceta, veggente, eremita. Nell’antica tradizione indiana, il muni è colui che diviene amico degli dei, colui che possiede poteri magici. E tale riferimento ai “poteri” si trova anche nel nome personale del Buddha: infatti Siddhartha significa “colui che ha raggiunto lo scopo”, ma “siddhi”, oltre che ottenimento, raggiungimento, indica anche le facoltà sovrannaturali ottenute per mezzo delle tecniche dello hatha-yoga, o attraverso i mantra o taluni riti tantrici.
Per quanto concerne l’argomento di questo corso, è da rilevare che la parola muni indica altresì colui che ha fatto il voto del silenzio, essendo la via del silenzio, anche ai nostri giorni, una delle vie praticate dai ricercatori spirituali di molte tradizioni.
Già nell’antico Egitto gli uomini silenziosi erano oggetto di profondo rispetto: gli altissimi funzionari venivano definiti “realmente silenziosi”, per essi il silenzio non era manifestazione di umiltà bensì di vera saggezza e vero potere. Ed è scritto nella “Regola” di S. Benedetto: “data l’importanza del silenzio, ai discepoli ormai maturi si dia raramente il permesso di parlare, si trattasse anche di discorsi buoni, santi ed edificanti” (VI).
Silenzio e saggezza sono quindi, anche nel nome stesso del Buddha storico, sinonimi. Successivamente il termine muni verrà riferito agli arhat buddhisti, cioè a coloro che, secondo le scuole Theravada, hanno percorso tutto il Nobile Ottuplice Sentiero, fino al Nirvana (l’arhat è il “modello” del Theravada come il bodhisattva lo è per il Mahayana).
Nomen omen, si può dire. Ma la vita stessa del Buddha Śakyamuni è permeata dal silenzio (il Nobile Silenzio, come è chiamato nei testi); così come lo è tutto il suo insegnamento, il Buddhadharma, e come lo sono tutte le comunità di praticanti (Samgha), che tali insegnamenti cercano di portare nella vita quotidiana.
E questo a partire dal profondo silenzio che avvolse il Palazzo del re, la notte in cui Siddhartha decise di “partir monaco per conseguire la beatitudine della Realtà suprema”, come narra Aśvaghosa. Gli dei, per favorire la partenza del Principe, addormentarono tutti gli abitanti della reggia e ne spalancarono silenziosamente le grandi porte. Perfino il cavallo di Siddhartha, Kanthaka, “evitò suoni che turbassero la notte o svegliassero la servitù; partì senza rumor di mascella, senza nitrire, camminando con passo sicuro”.
Ed ancor più significativo fu il silenzio nel quale il Buddha fu tentato di immergersi subito dopo aver conseguito il Risveglio, allorquando gli vennero alla mente questi versi (dal Samyutta Nikaya I, VI, 1, 4):
“Perché dovrei esporre quel che con difficoltà ho conseguito?
Questa Dottrina difficilmente può essere realizzata
da quelli che sono in potere della brama e dell’avversione;
è ardua, astrusa, profonda, difficile da comprendere, sottile;
non la capirebbero quelli che sono schiavi della brama,
impediti da un complesso di oscurità.”
Fu solo dopo aver ascoltato l’accorata supplica del dio Brahma che il Buddha accettò compassionevolmente di trasmettere la sua dottrina; si badi, la dottrina soltanto, il cammino verso la meta, divenne oggetto degli insegnamenti del Buddha, non la meta stessa, il nirvana, “di fronte al quale ogni parola deve ritirarsi e volgersi altrove” (Panikkar).
Come disse il Buddha stesso, “il Tathagata si limita a mostrare il sentiero”.


Molti altri – alcuni verranno citati più oltre – sono gli episodi della vita del Buddha che potrebbero essere narrati per mostrare quanta parte vi avesse l’amore per il silenzio, quanto egli vigilasse sul silenzio e quanto spesso consigliasse di praticarlo e custodirlo. Ma anche sotto altri aspetti il silenzio permea di sé la Via del Buddha. Osservare come esso venga concretamente vissuto dal Risvegliato e dai suoi discepoli ci porta a comprendere quale ruolo esso svolga nei suoi insegnamenti, fino a poter parlare del Buddhadharma come di una vera e propria Via del Silenzio.

Il silenzio del Buddha non è solo il silenzio fisico che viene mantenuto durante la pratica della meditazione, o il silenzio interiore di una mente pacificata e libera dagli offuscamenti. Non è, come osserva il teologo cattolico Raimon Panikkar, 
Il teologo Raimon Panikkar
una “incapacità psicologica di parlare della realtà o di dare la vera risposta alle questioni umane fondamentali”, e neppure è soltanto dovuto “all’incapacità della mente umana di comprendere il mistero ultimo della realtà”.
Benché il Buddha di fronte a certi tipi di domande, che potremmo genericamente definire di ordine “metafisico”, molto spesso rimanesse in silenzio, tuttavia tale silenzio non è una mancanza di risposta, è anzi l’indicazione che può consentire al postulante di trovare in se stesso la risposta.
Una volta, “un filosofo chiese al Buddha: ‘Senza parole, senza il non espresso, puoi dirmi la verità?’ Il Buddha restò in silenzio. Il filosofo si inchinò e ringraziò il Buddha dicendo: ‘Con la tua amorevole gentilezza hai spazzato via le mie illusioni e sono entrato nel vero sentiero’. Dopo che il filosofo se ne fu andato, Ananda chiese al Buddha che cosa avesse ottenuto. Il Buddha rispose: ‘Un buon cavallo corre anche solo nel vedere l’ombra della frusta’” (da “La porta senza porta” di Ekai, detto Mu-Mon).
In almeno due occasioni, il grande Maestro Nagarjuna (India del Sud, I sec. d.C.) riporta la tradizione secondo cui il Buddha, dopo il Risveglio, non avrebbe più pronunciato una sola parola, fino alla morte: “mai dovechessia - scrive Nagarjuna nel “Madhyamakakarika” (25.24) - nessuna legge è stata insegnata dal Risvegliato”. Ed aggiunge nel “Catuhstava” (II,7): “Tu, o Signore, non hai mai pronunciato neppure una sola sillaba; eppure tutti questi esseri da convertire sono saziati dalla pioggia della Legge”. 
Nagarjuna
La stessa tradizione è riportata in un antico testo, il “Tathagataguhyasutra”, nel quale si dice che “dalla notte in cui il Tathagata ha ottenuto il supremo completo Risveglio fino alla notte in cui egli è entrato nel parinirvana senza residuo, neppure una sola sillaba è stata da lui espressa né pronunciata né la pronuncerà”.
Secondo lo studioso Renato Emanuele, le parole di Nagarjuna ci fanno comprendere che “tutti i discorsi del Buddha sono propedeutici al Silenzio; il messaggio più profondo del Buddha viene trasmesso senza parole. La Verità è realizzazione inesprimibile, non descrizione di qualcosa che si contrappone al soggetto: il dualismo soggetto-oggetto è caratteristico della conoscenza empirica. La conoscenza interiore (Prajna) trascende la prospettiva dualistica che scinde il reale nell’antitesi soggetto-oggetto (..). La prajna è abbandono di tutte le modalità tipiche della conoscenza empirica, in quanto coincide con il fondamento ultimo di tutti i fenomeni”. E tale fondamento, nella prospettiva buddhista, è, lo si rammenti, sunyata (in giapp. ku), la vacuità, l’assenza di esistenza intrinseca dei fenomeni.
Ancor più chiare le parole di Panikkar: “la ragione ultima del silenzio del Buddha non ci sembra risiedere nella limitazione insita in ogni soggetto umano, né nell’imperfezione della nostra conoscenza, né nel carattere misterioso, nascosto, della realtà”, bensì “sul fatto che la realtà ultima non è” (il che non significa, lo sappiamo, che per i buddisti i fenomeni non esistano!).
Bodhidharma
Questa affermazione di Panikkar è bene illustrata dal koan n. 41 della raccolta di Mu-Mon, dove si racconta che un discepolo di Bodhidharma, rivolgendosi al Maestro, gli abbia detto: “La mia mente non è in pace. Maestro, placa la mia mente”. Bodhidharma rispose: “Se mi porti quella mente, la placherò per te”. E il discepolo: “Quando cerco la mia mente non riesco ad afferrarla”. A quel punto Bodhidharma affermò: “Allora la tua mente è già placata”.
Nella IV sezione della raccolta di sermoni del Buddha chiamata “Samyutta Nikaya” (“Raccolta dei discorsi connessi l’un l’altro”), il libro X riporta diversi esempi del Nobile Silenzio opposto dal Buddha e dai suoi discepoli a talune domande. Ad esempio, viene spiegato al re Pasenadi il motivo per cui non vi è risposta alla domanda se il Buddha esista o no dopo la morte. E’ errato dire che il Buddha esiste dopo la morte; è errato dire che non esiste; è errato dire che esiste e non esiste; è errato dire che né esiste né non esiste. Tali affermazioni sono tutte improprie, perché si riferiscono ai 5 aggregati, gli skanda, che costituiscono la persona (forma, sensazione, percezione, volizioni, coscienza), e solo chi non conosce realmente il sorgere e il disgregarsi degli skanda, solo chi non ha superato l’attaccamento ad essi, può pensare “il Buddha esiste dopo la morte”, o “il Buddha non esiste dopo la morte”, ecc. Solo il silenzio è risposta appropriata (e non un’assenza di risposta), in quanto il fondamento dei fenomeni - e quindi degli aggregati – è la vacuità, e la sola conoscenza è la realizzazione della vacuità stessa, al di là del dualismo della conoscenza di soggetto-oggetto (che sottende invece a domande del tipo “il Buddha esiste dopo la morte?”, “il mondo è eterno?”, “il sé esiste?”, “spirito e corpo sono la stessa cosa?”, ecc.).
Come dice Panikkar, il “silenzio (del Buddha) non riguarda soltanto la risposta, ma investe la domanda stessa. Non soltanto tace, ma anche zittisce”.
E’ il caso dell’asceta Vacchagotta, che chiese al Buddha: “O Gotama, esiste il Sè?”. Il Buddha restò in silenzio. Allora gli domandò: “Allora, o Gotama, il Sé non esiste?”. Ed ugualmente il Buddha restò in silenzio. Allora Vacchagotta andò via. A quel punto, Ananda, il discepolo del Buddha, chiese al Maestro il motivo del suo silenzio. Ed il Buddha disse: se avessi risposto sì, il Sé esiste, avrei confermato le dottrine di quegli asceti che sono detti eternalisti. E se avessi risposto no, il Sé non esiste, avrei confermato le dottrine dei nichilisti. E continua: “Se alla sua domanda: ‘Esiste il Sé?’ io avessi risposto: ‘Il Sé esiste’, questo sarebbe forse stato coerente con la nozione che tutti gli elementi sono insostanziali?’. ‘No di certo, Signore’. ‘Se alla sua domanda: ‘Allora il Sé non esiste?’ io avessi risposto: ‘Il Sé non esiste’, allora, o Ananda, nel già confuso Vacchagotta sarebbe aumentata la confusione: egli avrebbe pensato: ‘Prima avevo un Sé e adesso non ce l’ho più!’” (Samyutta Nikaya, IV, libro X, Sutra di Ananda).
La risposta silente del Buddha non si contrappone ad altre possibili risposte, più o meno rumorose. L’insegnamento del Buddha non mira a costruire una qualche teoria intorno all’uomo, alla società, all’universo, che si sostituisca ad altre dottrine filosofiche, religiose, politiche, perché più accattivante, più gratificante, più alla moda. Citando ancora Panikkar, che ha dedicato a queste riflessioni un volume di oltre 400 pagine, “il Buddha non dà alcuna risposta [non ha mai pronunciato una sillaba, dice il Sutra] perché elimina la domanda. Non che non risponda, ma, a rigore, ci fa vedere che non si sa che cosa si domanda. Egli placa le nostre ansie di sete di sapere, di andare, di arrivare, di possedere, di potere… di essere”.
Per questo non si può parlare, a proposito del “buddhismo” (un –ismo da usare con cautela!), di a-teismo, né di teismo. Il Buddha non nega Dio, né lo afferma. Negazione e/o affermazione non hanno importanza. Entrambe le risposte sarebbero non valide. Le cosiddette questioni “ultime” sono infondate, in quanto la nostra interrogazione nasce da un falso presupposto: ciò che fa sorgere la domanda è l’insoddisfazione, la sofferenza (duhkha). Ma la sola risposta adeguata appartiene ad un ordine nel quale quella domanda non può più prodursi.
Quando il monaco Radha chiese quale fosse il fine del nirvana, il Buddha gli disse: “Non è possibile, o Radha, rispondere a codesta domanda: ‘Con l’immersione nel nirvana, infatti, si compie quella vita pura che tende al nirvana e che nel nirvana ha il suo termine’” (dal Samyutta Nikaya, III, libro II, Sutra di Radha).
Ciò che il Buddha insegna, afferma Panikkar, è “dissolvere l’impostazione stessa del problema, riconoscendone l’inadeguatezza perché lo stesso io che se lo pone è la causa che fa sì che ogni impostazione sia non corretta”.
E ancora: “Bisogna osare entrare nel silenzio, (..) essere disposti a perdere totalmente la propria vita, a prescindere da qualsiasi oggetto ed essere pronti a lasciar cadere il soggetto” (Si confronti: “Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” Gv 12,25. “Chi avrà trovato la sua vita la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà” Mt 10,39. Si veda anche Mt 16,25; Mc 8,35; Lc 9,24 e 17,33).
Entrare nel silenzio è il cuore dell’insegnamento del Buddha: nel silenzio del corpo, della voce, della mente. E per far questo è indispensabile la pratica della meditazione (dhyana), al di fuori della quale si ricade nella pura dialettica, nella sterile erudizione, nella dicotomia soggetto/oggetto. E porre un oggetto (una meta, un fine, una ricompensa) di fronte alla propria ricerca, alla propria fede, significa distruggere la ricerca, la fede, la Via. Dice Panikkar: “Né Buddha né Cristo (..) possono rimanere a fianco dei credenti senza rappresentare un pericoloso ostacolo per la fede”.
E’ detto: “Se incontri il Buddha uccidi il Buddha; se i Patriarchi, uccidi i Patriarchi; se trovi gli Arhat, uccidi pure quelli”.
Non a caso, lo Zen, la Via la cui essenza è la pratica silente della postura seduta (zazen), trova nel silenzioso insegnamento del Buddha a Mahakasyapa la propria origine. Secondo la tradizione Chan/Zen, un giorno, mentre si trovava sul Picco dell’Avvoltoio, il Buddha “rigirò un fiore tra le dita e lo sollevò davanti ai suoi ascoltatori. Tutti rimasero silenti. Solo Mahakasyapa sorrise a questa rivelazione, sebbene cercasse di controllare le rughe del suo viso” (Koan n. 6 della raccolta di Mu-Mon).


m. Mauro Ton Ko, ottobre 2007

Nessun commento:

Posta un commento