lunedì 15 ottobre 2012

UNISABAZIA 2007/08 - Il Grande Silenzio

Il grande Silenzio: immagini della morte nelle tradizioni buddhiste

Laudato si’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no’l farrà male
(Francesco di Assisi)

12 marzo 1763: una data chiave nella storia della società occidentale moderna. Il Parlamento di Parigi emana un decreto che prevede la chiusura dei cimiteri all’interno della città e la loro apertura fuori di essa, nei dintorni.
Al di là del fatto che il decreto non sia stato applicato se non dopo diversi anni (Editto di St. Cloud del 1804. Si ricordi Foscolo: “Pur nuova legge impone oggi i sepolcri / fuor de' guardi pietosi…”), e al di là delle motivazioni “oggettive” (igienico-sanitarie, economiche,..) che lo hanno ispirato, resta il fatto che l’ordinanza del Parlamento esplicita concretamente il profondo mutamento intervenuto nelle modalità con cui l’uomo europeo del XVIII sec. pensa e vive la morte, in tutti i suoi aspetti.
Si è trattato di un processo lento, iniziato nei decenni precedenti, parallelo a fenomeni epocali interdipendenti quali la formazione delle classi borghesi, l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la laicizzazione della società ecc.; fenomeni strutturali e culturali che non hanno coinvolto omogeneamente e contemporaneamente tutti gli strati sociali, in Francia come altrove. Ma è stato comunque un processo irreversibile, in cui l’espulsione dei cimiteri dall’interno delle città illustra visivamente, come un quadro o una fotografia, un aspetto centrale della società occidentale post-industriale: il fenomeno della rimozione della morte.
Nel corso del XIX e del XX sec., scrive lo storico Philippe Ariès, “una maniera del tutto nuova di morire è comparsa (..) in alcune fra le regioni più industrializzate, più urbanizzate, più tecnicamente avanzate del mondo occidentale”: “la società ha espulso la morte”. E’ un fenomeno che si manifesta a tutti i livelli: il rapporto del moribondo con la propria morte e con chi gli sta intorno, l’ospedalizzazione della morte, il trattamento del corpo, le modalità del lutto e della sua elaborazione, la ritualità e i funerali, i cimiteri, il linguaggio relativo alla morte e al morto, ecc.
E’ certamente una descrizione riduttiva e semplicistica di un fenomeno complesso, disomogeneo,che è profondamente studiato nei suoi aspetti da storici, filosofi, psicologi. Esiste infatti un ramo specialistico del sapere chiamato tanatologia, il che sembra quasi contraddire quanto detto finora. Ma la auto-anestesia della società moderna nei confronti della morte è comunque un dato di fatto, ben sintetizzato da Enzo Bianchi,

Enzo Bianchi, Priore di Bose
Priore della Comunità monastica di Bose, il quale scrive che “la morte appare rimossa e, al contempo, spudoratamente esibita; resa oscena, cioè scacciata dalla scena dei vivi, estraniata dal mondo delle relazioni sociali, e spettacolarizzata (..), quasi in un rito di esorcizzazione collettiva officiato dai mass-media. Una società narcisistica cerca di rimuovere la memoria dei limiti e anzitutto quell’evento, la morte, che ha il potere di annichilire tutti i deliri di onnipotenza dell’uomo”. La morte, in effetti, costituisce lo scacco di ciò che sta al centro della nostra società: la produzione e il consumo di merci. Consapevolezza della morte e feticismo delle merci sono elementi tra loro contraddittori ed inconciliabili.
In tal modo, l’individuo e la società, credendo di rimuovere una fonte di sofferenza, si privano proprio di ciò che può “divenire rivelazione, aprire squarci di senso sulla vita” (E. Bianchi). L’uomo, anestetizzandosi dal pensiero della morte, si rivolge alla causa della malattia scambiandola per la terapia. E crea nuova sofferenza a partire dalla sofferenza.
Enzo Bianchi ci ricorda infine che fu proprio la visione di un morto (dopo un vecchio e un malato) a segnare l’iniziazione alla via della liberazione dalla sofferenza per Siddhartha, il futuro Buddha, che da quel momento si allontanò dal Palazzo nel quale le cure paterne lo volevano preservare dalla visione dei mali del mondo.


Anche da questo punto di vista, affatto secondario, gli insegnamenti del Buddha vanno decisamente contro-corrente rispetto alle tendenze di fondo della società. A meno che non siano i valori oggi dominanti ad andare in direzione contraria rispetto ai reali bisogni dell’uomo….
Come noto, già nel suo primo insegnamento dopo il Risveglio il Buddha ha parlato della morte. Nella esposizione della Prima Nobile Verità (duhkha satya, la verità della sofferenza), egli afferma: “la nascita è dolore, la vecchiezza è dolore, la malattia è dolore, la morte (marana) è dolore, l’unione con ciò che è discaro è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore. In breve, i cinque aggregati che rappresentano la base dell’attaccamento all’esistenza sono dolore” (dal Dharmachakrapravartanasutra, il Discorso della messa in moto della Ruota del Dharma). E’ impossibile riportare tutti i testi degli insegnamenti nei quali compare il pensiero della morte, tanto esso è centrale in tutte le scuole buddhiste (come pure nelle tradizioni spirituali di ogni epoca e luogo). Il tema della morte si connette indissolubilmente ai grandi temi del buddhismo: l’impermanenza (anitya), il karma, la non-esistenza del sé (anatman), l’interdipendenza (pratityasamutpada), la sofferenza (duhkha). Ma non come modalità teorica, bensì come vera e propria pratica (lo si ricordi, il buddhismo non è una filosofia, ma una prassi). Al punto che il Buddha stesso disse che come tra le impronte degli animali quella dell’elefante è la più grande, così tra le meditazioni quella sulla morte è la suprema.
Vedremo più oltre alcuni esempi di come il meditante si rapporti con il pensiero della morte all’interno della propria pratica. Ora, per comprendere in una prima approssimazione l’insegnamento del Buddha sulla morte, mi piace affidarmi non tanto ai Sutra nei quali esso è esposto, quanto invece ai racconti di due donne, due monache vissute all’epoca del Buddha. Le loro vicende sono narrate nel Therigatha (Le Strofe delle Anziane), un antico testo che fa parte del Canone Buddhista, nel quale le monache narrano le loro vicende umane.
La prima, che abbiamo già incontrato, è Kisagotami (Gotami la magra), di nobili origini, alla quale morì l’unico figlio, ancora bambino. Impazzita dal dolore, correva di porta in porta con il cadavere del piccolo sul fianco, chiedendo per lui una medicina. Tutti la respinsero con disprezzo, ma uno, più saggio, la indirizzò dal Buddha. Ella vi si recò, e gli chiese un rimedio per il figlio. Il Buddha, “scorgendo la promessa che in lei era racchiusa”, le disse: “Vai, entra in città, e riporta un piccolo seme di mostarda da ogni casa nella quale non sia morto nessuno”. Così ella fece, inutilmente, in quanto in nessuna casa non era mai morto nessuno. Alla fine, la sua pazzia si placò, e pensò: “Evidentemente questo è l’ordine naturale delle cose in tutta la città. Il Beato previde questo, preso da pietà, per il mio bene”. Portò quindi il corpo del figlio nel cimitero, dicendo: “Non è questa legge di villaggio e neppure di città, né è la legge di una sola stirpe, ma in tutto il mondo ed anche per gli dei nel cielo questa è la legge: tutto è impermanente!”. Infine, tornò dal Buddha, ed entrò nell’ordine monastico.
Kisagotami di fronte al Buddha
Ugualmente significativo è il racconto di Patachara, figlia di un tesoriere, la quale abbandonò la casa paterna dopo essere divenuta l’amante di uno dei servitori. Mentre ella stava partorendo il loro secondo figlio, il marito entrò nella foresta per tagliare delle frasche per farle un riparo, ma venne ucciso da un serpente velenoso. Patachara prese con sé i figli per tornare dai genitori, ma durante il viaggio il piccolo le fu rapito da un falco, e l’altro morì annegato in un fiume in piena. Sconvolta dal dolore, mentre entrava nella città natìa venne a sapere che la casa paterna era crollata, seppellendo padre, madre e fratello. Impazzita per il dolore, iniziò a girare in tondo, con le vesti che le cadevano a terra (Pata-achara = che va in giro trascinando la veste), mentre la gente le tirava immondizia e zolle di terra, in segno di disprezzo. La vide però il Buddha, il quale le si avvicinò, “contemplò la maturazione della di lei conoscenza” e le disse: “Sorella, riacquista la consapevolezza”. Dopo aver ascoltato il suo racconto, la rese consapevole con queste parole: “Patachara, non pensare che tu sia venuta da uno capace di esserti di aiuto. Proprio come tu ora stai versando lacrime per la morte dei tuoi bimbi e per il resto, così tu hai, in un infinito giro di esistenze, versato lacrime per la morte di bimbi ed altro, più abbondanti che le acque contenute nei quattro oceani. Sono meno le acque dei quattro oceani che la vasta distesa di acque, in lacrime versate, dal cuore dell’uomo che si lamenta toccato dal dolore. Per chi sprechi la tua vita, crogiolandoti in acerbi lamenti?”
E ancora:
“Non sono di riparo i figli, né il padre né alcun altro parente:
afferrata che tu sia dalla morte il vincolo del sangue non ti è di rifugio.
Questa verità discernendo il saggio, ben fondato sulla retta condotta,
rapidamente scopre la via conducente al Nirvana”.
Quindi, anche Patachara, il cui dolore era ormai più leggero da sopportare, entrò nell’ordine monastico. Un giorno, mentre si lavava i piedi, gettò via un poco di acqua, e la osservò mentre si spargeva per un breve tratto, prima di essere riassorbita nel terreno. Ne versò dell’altra, che arrivò più lontano. La terza volta, l’acqua andò ancora più in là. Osservando questo, Patachara sviluppò un pensiero: “Così pure i mortali muoiono, o nell’infanzia o nella mezza età o nella vecchiaia”. Il Buddha assistette da lontano alla presa di consapevolezza della monaca, e disse:
“L’uomo che, vivendo un centinaio d’anni,
non contempla mai come sorgano e scompaiano le cose,
sarebbe stato meglio per lui vivere solo un giorno,
ed in quel giorno scorgere il flusso degli eventi”.
Per Patachara come per Kisagotami, si passa dalla disperazione ad un primo grado di liberazione: la realizzazione dell’universalità della morte e del suo carattere di assoluta naturalità. La loro è “una radicale accettazione della morte” (Corrado Pensa). Ma il salto compiuto dalle due donne non è per nulla casuale o automatico. In entrambi i casi, si noti, il testo afferma chiaramente che il Buddha aveva visto in loro una promessa (Kisagotami) o una maturazione (Patachara), avvenute nel corso di precedenti esistenze. Quel salto di consapevolezza, di liberazione, può solo essere il frutto di una pratica spirituale. E nel buddhismo (e non solo in esso, va ribadito) “dire pratica spirituale significa automaticamente dire pratica sulla morte e, al contrario, dire pratica sulla morte significa dire pratica spirituale” (C. Pensa).
La più semplice delle pratiche buddhiste di meditazione in relazione alla morte (marana sati = consapevolezza, ricordo, della morte) consiste nel riportare alla mente la frase “marana vavissati”, che significa “ci sarà la morte”, dove “vavissati” è il futuro del verbo essere. Come il “memento mori” della tradizione occidentale, è il puro “ricordarsi della morte, riflettere sulla morte, essere consapevoli delle proprie reazioni di fronte alla morte” (C. Pensa). Meditare sulla morte, quindi, quale aiuto per un accesso al senza-morte, quale via di liberazione dalla sofferenza, e quindi anche dalla sofferenza legata alla morte, all’impermanenza di tutti i fenomeni. Proprio il contrario di quanto avviene nel nostro mondo - nella nostra mente -, laddove crediamo di liberarci dalla morte rimuovendola dal nostro orizzonte.
Più complessa e articolata è la meditazione sulla morte esposta nel “Lam-rim”, “Il Sentiero Graduale”, un sistema di pratica centrale nella tradizione tibetana della scuola Gelugpa, nella quale fu introdotto dal Lama Tsongkhapa nel XIV sec. In effetti, le scuole del buddhismo tibetano sono ricchissime di testi e insegnamenti sulla morte e sul morire, ed hanno sviluppato un approccio “pratico” al problema difficilmente riscontrabile nelle altre tradizioni spirituali, buddhiste e non.
La meditazione esposta nella prima parte del Lam-rim è detta “Tre radici, nove ragioni, tre determinazioni”, e si sviluppa secondo il seguente schema:

Tre radici      Nove ragioni      Tre determinazioni

1. L'inevitabilità della morte
            1a. a suo tempo la morte arriva per tutti gli esseri umani
            1b. giorno dopo giorno la vita diminuisce e non c'è alcuna speranza di poterla allungare
            1c. anche se siamo vivi troviamo pochissimo tempo per praticare il Dharma
                                        1. determinazione di praticare il Dharma

2. L'incertezza del momento della morte
            2a. su questo pianeta la vita umana non ha una durata fissa
            2b. la vita ha molte forze che le si oppongono e poche che le sono favorevoli
            2c. il corpo umano è estremamente fragile
                                        2. determinazione di praticare il Dharma immediatamente

3. Al momento della morte solo le proprie realizzazioni spirituali hanno valore
            3a. ricchezze, proprietà, fama o potere sociale non sono di nessun valore
            3b. la famiglia, gli amici ed i parenti non ci sono di alcun aiuto
            3c. perfino il vostro corpo non avrà più alcun valore
                                        3. determinazione di praticare il Dharma in modo puro, non
                                            mischiato a tendenze materialistiche

Il meditante, seduto correttamente, osserva le tre radici, con le corrispondenti ragioni e determinazioni, quindi, secondo i tempi e le modalità insegnategli, medita formalmente su ogni singola ragione, giorno dopo giorno, concludendo ogni sessione su tutti i punti, per arrivare dopo un certo periodo a lavorare sull’intera meditazione. Ed ogni volta, alla fine della seduta, recita una preghiera, ad esempio: “grazie al potere di questa pratica possa io raggiungere rapidamente la perfetta buddhità e possa così ogni essere senziente realizzare l’eterna felicità della saggezza”, dove, come si vede, la pratica è sempre finalizzata al beneficio di tutti gli esseri, mai solo al proprio vantaggio.
Esistono poi, ancora all’interno delle scuole tibetane, tecniche di meditazione che comportano la visualizzazione da parte del meditante di se stesso che sperimenta secondo varie modalità il processo della propria morte. Ma in genere le pratiche di questo tipo fanno parte delle tradizioni del Tantra (Vajrayana), vengono tramandate oralmente, da maestro a discepolo, e sono utilizzate soltanto da coloro che hanno ricevuto le necessarie iniziazioni.
A differenza delle scuole di tradizione tibetana, la pratica dello Zen non prevede specifiche meditazioni o visualizzazioni inerenti la morte. Tuttavia, si sente spesso dire che “fare zazen è entrare nella tomba”; lo stesso M° Taisen Deshimaru (che nel 1967 ha portato in Europa la pratica dello zazen) ha scritto che “zazen è osservare la morte durante la vita... Con lo zazen entriamo da vivi nella tomba e così possiamo trovare naturalmente…una soluzione al problema della morte”.
Il M° Deshimaru in "gassho"

Queste parole, come spiega il M° Roland Yuno Rech (discepolo del M° Deshimaru), sono una preziosa indicazione in merito alla pratica dello Zen: si tratta cioè di praticare con tutte le nostre energie, “come se si trattasse di una questione di vita o di morte”, in quanto il tempo è prezioso e limitato, e non va sprecato.
Non si medita “sulla” morte, quindi, ma la consapevolezza della morte stessa fa sì che la pratica divenga più intensa, più urgente, e la vita venga vissuta in maniera più profonda. Si comprende che vita e morte sono indissolubili, l’una non può essere compresa senza l’altra. “Entrare nella propria tomba - scrive R. Rech – non è un pensiero ma un’intuizione penetrante” che cambia il proprio modo di essere in relazione alla vita e alla morte.
Nello Zen non viene negata la dottrina della trasmigrazione, ma questa non è oggetto della pratica. La legge del karma è certamente accettata, lo stesso M° Dogen Zenji (XIII sec.) diceva che se non si accetta la causalità karmica non si fa alcun passo sulla Via, in quanto prevarrà la tendenza a ritenere che tutto avvenga per caso. Ciò che è da fare, non è tanto preoccuparsi delle vite successive o risalire a quelle precedenti, bensì considerare ciò che ci accade come il risultato dei nostri pensieri, delle nostre parole e delle nostre azioni. In tal modo ci si assume la piena responsabilità della nostra vita. Ed è ciò che possiamo osservare durante lo zazen: “possiamo andare da uno stato infernale di dolore e di ribellione a uno stato di pace…prima di venire ripresi da desideri o da preoccupazioni familiari o finanziarie. Vedere la vita dal punto di vista della trasmigrazione è anche osservare in quale mondo si sta vivendo momento per momento” (R. Rech).
La pratica dello Zen non è quindi assimilabile (come non lo è nessuna tradizione buddhista) ad una preparazione alla morte, una sorta di “Ars moriendi”. Essa non è sotto questo aspetto rivolta al futuro (o al passato), bensì è unità di corpo e spirito nel qui-e-ora.
Nel capitolo “Shoji” (“Nascita-e-morte”) dello “Shobogenzo” (“Il Tesoro dell’Occhio del Vero Dharma”, fondamentale testo Soto Zen del XIII sec.), il M° Dogen dice che “quando si parla di nascita non vi è null’altro che la nascita, quando si parla di estinzione non vi è null’altro che l’estinzione”.
Per Dogen, “nascita-e-morte è il nirvana e non bisogna odiare la nascita-e-morte in quanto tale” (Si ricordino le parole di Nagarjuna: “Non vi è la minima differenza tra samsara e nirvana”).
Liberazione (risveglio, illuminazione…) non è quindi affrancamento da qualcosa che esiste oggettivamente (nascita-e-morte), bensì liberarsi dalla visione distorta che fa percepire la realtà in modo erroneo (ignoranza), che fa vedere nascita-e-morte in una prospettiva di sofferenza e negatività.
Le vicende di Kisagotami e Patachara ci hanno indicato un approccio alla sofferenza della morte, e alla possibile liberazione dalla sofferenza stessa, non tanto dal punto di vista della dottrina, ma soprattutto da quello concretamente vissuto nella realtà quotidiana.
Ugualmente significativa è la storia di Bodhidharma, il monaco che nel VI sec. d.C. portò dall’India alla Cina la pratica del dhyana, divenendo il primo Patriarca Ch’an (in giapp. Zen). Il padre di Bodhidharma, sovrano di un piccolo regno dell’India del Sud, si ammalò e morì dopo una lunga agonia, che segnò profondamente il figlio. Il giovane, dopo le esequie, si sedette accanto alla tomba, e vi restò immobile in profonda meditazione per sette giorni. Alla fine di questo ritiro, due suoi fratelli gli domandarono perché avesse fatto questo e si sentirono rispondere: “Ho voluto vedere dove era andato mio padre, ma non ho visto altro che il sole che brilla sulla terra e nel cielo”.
Diceva il M° Deshimaru:
“anche se li amiamo,
i fiori appassiscono e muoiono;
e le erbacce, anche se le detestiamo,
spuntano e vivono…
Durante la vita non dovete cadere nell’adorazione del paradiso. Dopo la morte, non dovete avere paura dell’inferno”.

m. mauro ton ko, gennaio 2008

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