mercoledì 8 marzo 2017

Quando l’Esistenzialismo tedesco volse a Levante: I – Martin Heidegger


Il pensiero filosofico dei primi decenni del ‘900 fu caratterizzato dal bisogno “di ripensare e ridefinire il compito della filosofia”, in opposizione al riduzionismo psicologistico della coscienza e rivalorizzando “la vita trascendentale della coscienza stessa come sfera d’essere assoluta, da cui occorre prendere le mosse per recuperare il senso perduto della realtà, impoverita come mondo di mere cose o di fatti senza significato[1].
Il più forte impulso in questa direzione venne da Edmund Husserl (1859-1938), il fondatore della fenomenologia, il cui pensiero influenzò, direttamente o indirettamente, filosofi quali Löwith, Levinas, Sartre, Merleau-Ponty, Enzo Paci…, e portò, tra l’altro, ad un incontro tra la fenomenologia e il marxismo con esiti anche molto lontani dalle originarie intenzioni del fondatore.
Uno degli interpreti più originali della fenomenologia di Husserl fu il suo assistente e poi successore presso l’Università di Freiburg, Martin Heidegger (1889-1976). Nato da genitori cattolici, studiò teologia e filosofia, in particolare Hegel, Schelling, Nietzsche, Husserl, la poesia tedesca… Proprio ad Husserl dedicò nel 1927 la sua prima grande opera, Sein und Zeit (Essere e tempo), che fece di lui uno dei più geniali ed influenti pensatori della filosofia contemporanea.

Martin Heidegger
Per i temi centrali della sua filosofia – l’uomo, la libertà, la morte, il linguaggio – e soprattutto per “il suo insistere sull’analisi esistenziale dell’uomo[2], Heidegger è definito un pensatore esistenzialista, come pure Jaspers, Sartre, Merleau-Ponty, Gadamer – laddove con il termine esistenzialismo si intende non tanto una vera e propria scuola o corrente filosofica, ma piuttosto un’atmosfera, un clima culturale che coinvolse il pensiero, l’arte, la letteratura, lo stesso stile di vita, fino a divenire un luogo comune dell’immaginario europeo.
In Essere e tempo, testo che Heidegger lasciò incompiuto, egli espose la sua concezione della fenomenologia, secondo cui essa “non si limita a presentare ciò che si mostra comunque o immediatamente, ma si assume il compito di portare alla luce ciò che dapprima e per lo più non appare, restando nascosto dietro l’invadenza dei fenomeni ordinari. Questo inapparente, che la fenomenologia disocculta, è tuttavia qualcosa che appartiene essenzialmente a ciò che si mostra dapprima e per lo più, così da costituirne il senso e il fondamento[3]. Per Heidegger questo è “l’essere dell’ente”.
Di conseguenza la fenomenologia è definibile come ontologia. Il problema dell’essere consiste nell’interrogare l’ente, privilegiando quell’ente particolare determinato dal fatto di comprendere l’essere – ovvero noi stessi. Heidegger non lo designa come uomo, ma ricorre al termine Dasein (Esser-ci), l’ente che “non semplicemente sussiste, come una cosa qualunque, ma che esiste, nel senso che ha sempre da essere il proprio essere come proprio [..]. Esistere può solo il Dasein, non la pietra o l’albero, perché vuol dire comprendersi, e cioè progettarsi verso la possibilità d’essere più propria, potersene appropriare e così potersi realizzare per quello che ciascuno ha da essere autenticamente[4].
Secondo Heidegger “l’uomo è un essere predisposto alla realizzazione delle proprie possibilità non in quanto ego isolato, ma come un essere che ha necessariamente interrelazioni con il mondo delle cose e delle persone[5]. È questo un aspetto specifico del suo esistenzialismo, da cui consegue che l’uomo nel suo esistere “si stacca dal retroterra della natura per aprirsi all’Essere. [..] Potenzialmente l’uomo è aperto al mistero dell’Essere[6]. Il che, fino ad allora, era stato “completamente trascurato o, nell’Occidente, aveva dato origine ad una speculazione di tipo teocentrico. Per Heidegger anche il problema di Dio è sollevato dall’uomo[7], e non a caso J.P. Sartre lo definì un esistenzialista ateo, come lui stesso – definizione peraltro respinta da Heidegger.
Ma tutto il suo pensiero non si presta a definizioni precise o a dottrinarismi, men che meno negli sviluppi successivi alla pubblicazione di Essere e tempo. Nella fase della maturità (nella quale viene rivisitato il pensiero pre-socratico) la filosofia diviene per lui meditazione, un “pensare all’Essere che rivela se stesso”; l’Essere si svela più vicino, “è essenzialmente aperto e parzialmente svelato in tutti gli esseri. Ognuno di noi può avere un accesso diretto all’Essere, a condizione che non si scordi della Sua realtà[8], in quanto è l’Essere a rivelarsi al pensiero umano, essendo il Dasein per natura passivo.
E la filosofia diviene altresì poesia, svelamento dell’Essere attraverso le parole. Ma, anche qui, “non è l’uomo che parla, ma il linguaggio stesso e, nel linguaggio, l’Essere. L’uomo può parlare solo in quanto ascolta[9] il linguaggio dell’Essere.

Questi pur brevi ed approssimativi accenni su uno dei pensatori più complessi e profondi dell’Occidente contemporaneo possono far meglio comprendere un fatto storico particolare: il grande interesse, il vero e proprio fascino che la filosofia di Heidegger risvegliò da subito nel mondo orientale, in particolare in Giappone, fino a fare di lui il filosofo occidentale più tradotto nel paese del Sol Levante.
Un interesse assolutamente reciproco, anche se contraddistinto da “un aspetto singolare: la disparità esistente tra la rilevanza dei materiali e delle testimonianze oggi a disposizione [..] e l’esiguità dei riferimenti espliciti presenti nelle opere di Heidegger[10].

Riportiamo qui alcuni esempi di tali riferimenti tra i non molti possibili [11]:
q  “...ogni meditazione su ciò che è oggi può sorgere e svilupparsi solo se, mediante un dialogo con i pensatori greci e il loro linguaggio, affonda le radici nel fondamento della nostra esistenza storica. Questo dialogo aspetta ancora di essere iniziato. Esso è a mala pena ancora in preparazione, e rimane a sua volta la condizione per l’indispensabile dialogo con il mondo dell’oriente asiatico” (1954).
q  “…per il costruire planetario sono imminenti degli incontri a cui coloro che oggi vanno incontro non sono affatto pronti. Questo vale in ugual misura sia per il linguaggio europeo sia per quello asiatico-orientale, soprattutto per l’ambito del loro possibile dialogo. Nessuno dei due, infatti, è in grado di aprire e fondare da sé questo ambito” (1955).
q  “La parola-guida nel pensare poetante di Lao-tzu suona ‘Tao’ e ‘pro­priamente’ significa ‘via’. Ma poiché ci si rappresenta in modo superfi­ciale la via come il tratto di collegamento tra due luoghi, si è frettolosa­mente scartato il termine ‘via’[..]. Si è così tradotto ‘Tao’ con Ragione, Spirito, Senso, Logos. Ma il Tao potrebbe essere la via che tutto av-via; [..] Forse nella parola ‘via’, Tao, si nascon­de il mistero di tutti i misteri del dire pensante [..]. Tutto è via” (1959).
q  “La mia convinzione è che solo a partire dal medesimo luogo del mondo nel quale il moderno mondo tecnico è nato, possa prepararsi anche un'inversione, e che questa non possa avvenire tramite l'assunzione del buddismo zen o di altre esperienze orientali del mondo. Per cambiare il modo di pensare c'è bisogno dell'aiuto della tradizione europea e di una sua riappropriazione. Il pensiero viene modificato solo dal pensiero che ha la stessa provenienza e la stessa destinazione” (1976).

Poche ma significative parole, sufficienti comunque a documentare testualmente il rapporto di Heidegger con il pensiero orientale, specificamente con le tradizioni del Taoismo e del Buddhismo, soprattutto Zen. E a mostrare altresì la centralità del tema della parola, del linguaggio, nel suo pensiero: egli sottolineò infatti “il ritardo occidentale nella padronanza delle lingue est-asiatiche, come anche la necessità di evitare semplicistiche comparazioni[12]. Quindi, ciò che Heidegger vide nel pensiero orientale non fu tanto una possibilità di salvezza da accogliere acriticamente e con ingenuità – come sovente accade tuttora – bensì la necessità di avere un valido interlocutore con cui confrontarsi in un serio tentativo dell’Occidente di ridefinire il compito, il metodo e il linguaggio della filosofia.

Molto più numerosi e ben documentati furono invece i rapporti personali intercorsi tra Heidegger e importanti esponenti delle tradizioni filosofiche e spirituali dell’Oriente.

v Già negli anni ’20 i suoi corsi universitari videro la partecipazione di alcuni buddhisti giapponesi, legati alla tradizione dello Zen e alla cosiddetta Scuola di Kyôto, sorta in quel periodo ad opera del filosofo Kitarô Nishida (1870-1945), la quale “costituì uno dei tentativi più interessanti di stabilire un dialogo e una sintesi tra il pensiero occidentale e quello orientale [nel tentativo] di esprimere una nuova sintesi epocale capace di affrontare la sfida nichilistica dell’impero planetario della tecnica, di matrice occidental-europea[13]. A partire da quel periodo, in Giappone si cominciò a tradurre le opere del filosofo tedesco e a tenere corsi sul suo pensiero, ad esempio da parte del Barone Shûzô Kuki.

Kitaro Nishida
v Dopo la guerra (1946) Heidegger intraprese la traduzione in tedesco del Tao Te Ching, insieme con lo studioso cinese Paul Shih-yi Hsiao, autore della traduzione italiana pubblicata nel 1941 dall’Editore Laterza. Al riguardo, Hsiao disse poi che quel lavoro aveva esercitato una significativa influenza su Heidegger, e che la sua concezione del Niente era molto vicina al wu taoista, il quale non è un Nulla assoluto, non-esistenza, ma è piuttosto non-essere, “esistenza in uno stato privo di attributi, di qualità, di attività proprie della manifestazione, sebbene tutte le possibilità della manifestazione siano in esso latenti. Non-essere è essere in latenza[14].
Heidegger affermò spesso che la sua non era una posizione nichilista. Il Nulla della sua filosofia non è un nulla che annichilisce. Lo comprese bene Hsiao dal punto di vista del Taoismo, come pure Nishida da quello del Buddhismo Zen. Conseguentemente, “Heidegger rifiuta di parlare sia di sé sostanziale sia di sostanza spirituale[15], così come nel Buddhismo viene respinta ogni concezione di un sé sostanziale, separato, permanente.
Inoltre, si è visto come il problema del linguaggio sia centrale nella riflessione heideggeriana, la cui attenzione “è diretta al momento originario che precede la distinzione tra soggetto e oggetto[16]. Qualcosa di analogo avviene nello Zen, allorquando lo studente medita sul koan che chiede “qual era il tuo volto originario [honrai no memoku], quello che avevi prima della tua nascita?”, ovvero l’essenza originaria, la natura di Buddha [17].
v Nel 1953 conobbe personalmente Daisetz Teitarô Suzuki (1870-1966), il primo e più noto divulgatore del Buddhismo Zen in Occidente, autore di numerosi testi pubblicati anche in Italia. Così Suzuki rievocò l’incontro: “Il tema principale del nostro colloquio è stato il pensiero nel suo rapporto con l'essere. [..] ho detto che l'essere è là dove l'uomo, che medita l'essere, avverte se stesso, senza però separare sé dall'essere [..] ho aggiunto che nel Buddhismo Zen il luogo dell'essere è mostrato evitando parole o segni grafici, poiché il tentativo di parlarne finisce inevitabilmente in una contraddizione[18].

D.T. Suzuki
v Nel 1954 ebbe luogo un interessante incontro tra Heidegger e Tomio Tezuka, docente di Letteratura tedesca a Tokyo e traduttore di Goethe, Rilke, Nietzsche, Hesse. Insieme lessero, tradussero e commentarono un famoso haiku di Matsuo Bashô (XVII sec.):
Un’allodola.
Oltre, silenzioso immobile,
questo valico.
Parlarono del film Rashômon, il capolavoro di Kurosawa (1950), ed infine, ad una domanda di Tezuka sul Cristianesimo, Heidegger rispose definendolo “imborghesito”, espressione di una “religiosità convenzionale”, e ormai privo della forza presente solo in una fede viva [19].
v Nel 1958 Heidegger tenne a Freiburg un seminario cui partecipò Hôseki Shin’ichi Hisamatsu, monaco Zen Rinzai, allievo di Kitarô Nishida, filosofo e maestro di Shodô, la Via della calligrafia. Hisamatsu fece un intervento, illustrando la concezione giapponese dell’arte e il suo legame con lo Zen [20]. Alla fine del seminario, Heidegger propose agli uditori uno dei più famosi kôan del maestro Zen Hakuin: “Ascolta il suono del battito di una sola mano![21].
v Risale invece al 1963 uno scambio epistolare con Takehiko Kojima, direttore di un istituto filosofico di Tokyo. In una precedente conferenza Heidegger aveva fatto riferimento ai pericoli del predominio della tecnica nel mondo moderno e alla necessità di comprenderla con l’esercizio del pensiero meditante. Kojima vide rispecchiata nelle parole del filosofo la situazione del suo Giappone, dove nemmeno la mancanza di Dio veniva più riconosciuta come mancanza e dove perfino le tracce della fuga degli Dei erano ormai scomparse [22]. Espose a Heidegger le sue considerazioni in una lettera, alla quale egli rispose affermando tra l’altro che il pericolo maggiore derivante dal predominio dell’Occidente favorito dalla scienza e dalla tecnica non era costituito dalla perdita dell’identità umana, bensì dal fatto “che all’uomo sia impedito di diventare quel che non poté ancora espressamente essere[23].
La via verso la peculiarità umana non risiedeva però nell’alternativa – falsa – tra il padroneggiare la tecnica o l’esserne schiavo, ma piuttosto nel compiere un passo indietro, non nel passato e nemmeno nel tentativo di fermare il progresso tecnico: doveva essere un passo indietro del pensare, quello che permette di “dare ascolto in meditazione al mistero, ancora nascosto, della potenza dell’installare [stellen, la totalità del porre tecnico]. Un tale meditare non si può più compiere attraverso la filosofia occidental-europea finora esistente, ma neanche senza di essa, cioè senza che la sua tradizione, fatta propria in modo rinnovato, sia impiegata su di una via appropriata[24].

Il già citato studioso nepalese Dipak Raj Pant così commenta il reciproco interesse tra Heidegger e il Buddhismo Zen: “Il disinteresse per ciò che è 'rituale' e l'attenzione data allo spirito da parte dello Zen potrebbero essere considerati equivalenti al rifiuto di Heidegger della struttura filosofica convenzionale delle nozioni, dei termini e delle categorie classiche in favore di un 'filosofare vero'. La sua tendenza ad indagare su tutto in modo intenso ed informale è nella sua natura essenzialmente ‘spirituale’, anche se egli non parla mai chiaramente di ciò[25].

Per concludere, può essere interessante menzionare un incontro privato avvenuto a Freiburg il 27 settembre 1964 tra Heidegger e Maha Mani, un monaco buddhista thailandese trentenne, di tradizione Theravada (si ricorda che lo Zen appartiene alla tradizione Mahayana, come il Vajrayana tibetano o il Ch’an cinese), docente di filosofia e psicologia presso l’Università buddhista di Bangkok. Bikkhu Maha Mani si trovava in Europa per realizzare trasmissioni televisive sul Buddhismo, ed era un sostenitore (seppur moderato) dell’uso dei media a fini educativi. Per il giorno dopo era previsto lo stesso incontro, ma davanti alle telecamere.
Del colloquio fu testimone diretto H.W. Petzet, biografo di Heidegger, che fece da interprete e che riportò dettagliatamente lo svolgimento dell’incontro in un capitolo della sua biografia del pensatore tedesco [26]
Fece anche una dettagliata descrizione della persona del monaco, che indossava “una semplice toga di lino, color rosa (che, si dice, denota il rango più alto del suo ordine monastico). Questa ricorda la toga dell’antichità, ugualmente rivolta all’indietro sulla spalla destra. Cammina a piedi nudi, in leggerissimi sandali aperti, che lasciano liberi piede e malleolo; i piedi sono minuti quanto le mani dalle delicate dita. Quando le muove dalla loro posizione di riposo, formano gesti densi di significato, ma privi di pathos, per nulla studiati. Talvolta, la mimica si eleva ad una grande forza espressiva, ma ciò avviene solo due o tre volte durante l’intero colloquio. Indimenticabile un piccolo movimento: l’indice destro si muove orizzontalmente verso l’esterno a partire dalla coda dell’occhio destro. Una leggerissima ruga appare sulla fronte quando la resa dell’interprete non è del tutto comprensibile”.
I temi toccati durante il colloquio, iniziato con un lungo silenzio da parte di entrambi, furono soprattutto quelli della tecnica e del rapporto filosofia/scienza, dell’incontro tra pensiero orientale e occidentale, delle espressioni religiose. Heidegger, molto critico nei confronti del predominio delle scienze e della tecnologia che da esse deriva, chiese a Maha Mani cosa ne pensassero in Thailandia, ed egli rispose che ciò che lo interessava era se una cosa fosse buona oppure no. E aggiunse: “Noi non diciamo mai di no ad una cosa fin dall’inizio!”. Heidegger espose allora come l’essenza del carattere europeo, cioè la scienza occidentale, che in ogni ambito particolare è già tecnica, fosse scaturita dalla filosofia moderna, per la quale solo ciò che è conosciuto in modo chiaro e distinto, con certezza matematica, è reale. Ma “questa scienza [..] sottrae il terreno all’autentica domanda del pensiero. Poiché nella scienza si considera sempre solo ciò che è calcolabile – mentre il pensiero è lontano da ogni calcolo e le sue risposte non offrono ‘dati’ nel senso delle scienze”. Di conseguenza la separazione tra soggetto e oggetto, apparentemente incontestabile dal punto di vista della scienza, è proprio ciò che impedisce un autentico sviluppo del pensiero. Nonché un vero confronto tra le filosofie dell’Occidente e dell’Oriente, che partono da presupposti diversi.
Per quanto concerne la religione, Heidegger chiarì che per lui era importante “solo la possibilità di seguire e condividere il cammino di pensiero e che la sola cosa importante [era] ‘essere-in-cammino”, al di fuori quindi di ogni “sistema”. Punto sul quale il monaco dimostrò di essere in pieno accordo, dicendo che per religione egli altro non intendeva se non le dottrine dei fondatori. Toccò qui a Heidegger manifestare il proprio accordo con Maha Mani, in quanto religione significava per lui “seguire la parole del fondatore. Questo solo, né i sistemi né le dottrine e i dogmi sono importanti. Religione è Imitazione”.
Fu questo uno dei punti culminanti dell’incontro.
Heidegger affermò poi che gli uomini avevano perduto la capacità di semplicemente ascoltare, perché pronti solo a cogliere ciò che si confà al loro pre-giudizio, senza vedere il tutto. Di qui, la sua contrarietà all’uso della televisione quale strumento educativo, in quanto privo di genuinità, atto a travisare ciò che viene detto. Unico modo per superare il pre-giudizio e l’incapacità all’ascolto era per lui “l’abbandono alle cose e l’apertura al mistero”.
 Quindi tornò sul tema della religione, chiarendo che sebbene pensiero e fede non fossero riuscite a portare la pace tra gli uomini, non per questo dovevano essere abolite: “l’uomo nel suo essere [che è finito] è costretto a sempre nuovi tentativi! Proprio nell’epoca attuale posso pensare che la meditazione su che cosa e chi sia l’uomo è necessaria; oggi, quando c’è il pericolo che l’uomo sia del tutto consegnato alla tecnica e da un giorno all’altro sia reso una macchina pilotata”.
Infine, riprendendo il tema dell’abbandono e del mistero, chiese al monaco cosa significasse per un orientale la meditazione. La risposta fu “Raccogliersi”. E poi Maha Mani spiegò che “quanto più l’uomo, senza sforzo di volontà, si raccoglie, tanto più dis-fa se stesso. L’io si estingue. Alla fine vi è solo il niente. Il niente, tuttavia, non è ‘nulla’, ma proprio tutt’altro: la pienezza. Nessuno può nominarlo. Ma è, niente e tutto, la piena realizzazione”. Heidegger mostrò di comprendere profondamente le parole del monaco: “Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre detto”. Al che Maha Mani concluse: “Venga nella nostra terra. Noi la comprendiamo”.

Maha Mani
Al termine dell’incontro il filosofo si dimostrò molto colpito dalla figura del Bikkhu, come racconta Petzet: “Entrambi si alzano e si guardano a lungo. Poi il monaco si inchina profondamente e va via. Il colloquio è durato più di due ore e si è fatto notte. Solo lentamente si scioglie la tensione [..]. Heidegger ed io [Petzet] conveniamo sul fatto che il volto del monaco ha una purezza infantile, tra l’animale e lo spirituale, ma mostrata senza ‘infantilità’, poiché vi è la più profonda consapevolezza. E che attraverso il viso diventa visibile la santità di tutta la persona. Meravigliosi i profondi occhi che, a differenza dei giapponesi, guardano dritto negli occhi. Nessun dualismo tra spirito e sensi. La serietà, ma anche la serena allegria: questo resta indimenticabile

Circa un anno dopo l’incontro con il monaco (o forse di più), un giorno [Heidegger] mi chiamò: aveva da parteciparmi qualcosa di triste. ‘Il monaco col quale ebbi quel bel colloquio ha abbandonato il suo Ordine e ha assunto un lavoro in una società televisiva americana”.



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Note

1. M. Ruggenini, Fenomenologia e ontologia, in: A.V., Storia del pensiero occidentale, Ed. Curcio, vol. 6 pag. 1518 e 1520
2. Dipak Raj Pant, Heidegger e il pensiero orientale, Ed. Il Cerchio, pag. 14
3. Ruggenini, pag. 1534
4. Id., pag.1534-1535
5. Copleston, cit. in Pant, pag. 19
6. Pant, pag. 19
7. Id., pag. 19-20
8. Id., pag. 22
9. N. Abbagnano, Storia della filosofia, Ed. UTET, vol. III pag. 848
10. C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, Ed. Il Melangolo, pag. 13
11. Le citazioni dagli scritti di Heidegger sono tratte da Saviani, pag. 14 segg.
12. Id., pag. 17
13. Saviani, pag. 23. È interessante osservare che nel 1874 il termine filosofia fu tradotto in giapponese con tetsugaku, alla lettera: “amore della saggezza
14. Ramacharaka, cit. in Laotse, Il Tao-Te-King, Ed. Laterza, pag. 111, nota 4
15. N.C. Nielsen jr, Il Buddhismo Zen e la filosofia di Heidegger, in Dharma n. 7/2001, pag. 56
16. Id.
17. Cfr. E. Sablé, Dizionario del buddhismo zen, Ed. Il Melangolo, pag. 199
18. C. Mutti, La fortuna di Heidegger in Oriente, in: http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=220. Devo a questo saggio e al volume di Saviani le notizie sugli incontri personali tra Heidegger e gli esponenti delle tradizioni orientali
119. Cfr. Saviani, pag. 63-64
20. L’intervento di Hisamatsu è leggibile qui: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/zen/hisamatsu.htm. Alcune sue opere tradotte sono pubblicate dalle Edizioni Il Melangolo di Genova
21. Cit. in Saviani, pag. 104
22. Cfr. Saviani, pag. 71
23. Id., pag. 74
24. Id. pag.76
25. Pant, pag. 66
26. H.W. Petzet, Il monaco di Bangkok, in: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiacomparata/petzet.htm, dove è riportato il capitolo della biografia quasi interamente dedicato all’incontro. Se ne veda anche il sunto in Saviani, pag. 76 e segg. – Da qui in poi tutte le citazioni sono state tratte dal succitato testo di Petzet

Da leggere:

G. Pasqualotto, Oltre la tecnica: Heidegger e lo zen, in: Il Tao della filosofia, Ed. Pratiche
D.R. Pant, Heidegger e il pensiero orientale, Ed. Il Cerchio
C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, Ed. Il Melangolo
N.C. Nielsen jr, Il Buddhismo Zen e la filosofia di Heidegger, in Dharma n. 7/2001
C. Mutti, La fortuna di Heidegger in Oriente, in: http://www.claudiomutti.com
H.W. Petzet, Il monaco di Bangkok, in: http://www.gianfrancobertagni.it