L’ottavo Avatara di Vishnu, Krishna,
rappresenta in un certo senso l’ultima discesa del dio tra gli umani: dei due
successivi si può infatti dire che “Buddha
sarà un compromesso e Kalki una escatologia”[1].
Krishna è non a caso il dio dell’attuale Kali
Yuga, iniziato il giorno della morte del suo aspetto corporeo. Il suo culto
è ancora oggi il più diffuso in tutta l’India, all’interno della tradizione vaisnava.
Quella di Krishna è una figura molto
complessa, che si è evoluta a partire da tradizioni storiche e mitiche anche
molto diverse tra loro, e che riassume in sé “i contrasti più paradossali dell’animo indiano, dal sublime al
licenzioso, dal mistero teologico più astruso alla favola popolare”[2].
Krishna è Divino Amante e adorabile bambino, pastore e invincibile guerriero,
freddo stratega e sposo, Maestro dello Yoga
e gioioso suonatore di flauto…, in una serie infinita di ruoli a cui
corrisponde un altrettanto grande numero di icone dell’arte indiana e di miti
da cui sono nate opere letterarie che fanno parte del patrimonio di tutta
l’umanità, quali il Gitagovinda di Jayadeva[3]
o il Mahabharata
di Vyasa[4].
Vishnu-Krishna discese tra gli uomini
perché invocato dalla Terra, i cui abitanti erano tormentati dagli asura. Padre di Krishna era Vasudeva,
della casta dei guerrieri, gli ksatriya.
La madre era Devaki, cugina del tiranno Kamsa. Poiché Kamsa aveva usurpato il
trono al proprio padre Ugrasena, gli era stato predetto che sarebbe stato
ucciso da uno degli otto figli di Devaki. Aveva già fatto eliminare i primi
sei, ma quando Devaki fu nuovamente in attesa di un figlio, ella “trasferì”
miracolosamente l’embrione nel grembo di Rohini, seconda moglie di Vasudeva.
Nacque così Balarama, fratello
maggiore e compagno di Krishna. Quando poi generò Krishna (chiamato anche Balakrishna,
da: bala, bambino), suo ottavo
figlio, Devaki lo salvò da Kamsa affidandolo al pastore Nanda e alla moglie
Yashoda, che vivevano oltre il fiume Yamuna. Una vicenda che ricorda il mito di
Mosè salvato dalle acque, così come la reazione di Kamsa ricorda la storia di
Erode: il tiranno infatti, accortosi del duplice inganno, ordinò di uccidere
tutti i maschi dell’età di Krishna, ma la famiglia fuggì nella città di Gokula.
Quanto a Krishna, non era un bambino
docile e tranquillo: un giorno mangiò della terra, e Yashoda, allarmata, gli
aprì la bocca. Ma ebbe una visione impressionante: nel boccone di terra vide
l’intero Universo, così come, molto tempo dopo, il guerriero Arjuna vedrà
Krishna nella sua forma divina.
Ancora bambino, Krishna dovette difendersi
dagli attacchi dei demoni inviati da Kamsa per ucciderlo. Ognuno di essi “corrisponde ad un ostacolo con il quale
l’essere umano si scontra con fatica per poter crescere spiritualmente”[5].
Ad esempio, una demonessa una volta gli offrì il seno con il latte avvelenato,
ma fu essa stessa a morire: è il “veleno” di un amore materno possessivo,
soffocante, che blocca anziché far crescere. Un carro minacciò di schiacciarlo:
è la presa di coscienza del “peso” del proprio corpo. Un ciclone rischiò di
ucciderlo: è l’educazione intellettuale, che quando eccede i propri limiti può deviare
il devoto da un corretto percorso evolutivo…
Come Krishna attraversa e supera questi attentati
alla sua vita, così il suo seguace, affidandosi a Lui con fede e devozione,
supera gli ostacoli che incontra nel cammino spirituale.
Intanto Krishna cresce, diviene un
bellissimo giovane, oggetto d’amore per tutte le gopi (pastorelle, da: go, vacca, toro, bue) che vivevano a
Gokula. Krishna è qui l’affascinatore delle gopi,
che egli incanta con il suono del flauto (Krishna Venugopala). Tra esse, Radha
è la sua preferita, e diviene la sua amante in un rapporto perfetto,
immortalato nei versi del Gitagovinda
(il Canto di colui che protegge le vacche).
In effetti, Radha era già la moglie di uno dei pastori tra i quali Krishna
viveva e cresceva. Ma se l’amore di Rama per Sita era severo, puritano, e se
quello di Shiva per Parvati era tantrico, misterioso, l’amore tra Krishna e
Radha è giocoso, spensierato, assolutamente umano e mistico nello stesso tempo:
è la trasfigurazione della gioia terrena nell’estasi mistica.
È la caratteristica fondamentale delle
correnti religiose conosciute come Bhakti: Bhakti Marga, la Via della Devozione, la Via della liberazione
attraverso la Fede, l’abbandono di sé a Dio, anziché attraverso le opere (Karma Marga) o la conoscenza (Jñana Marga).
L’amore di Radha e delle gopi è l’amore del devoto di Krishna per
Dio. Il devoto infatti vede se stesso come donna nei suoi confronti, e ha fede
nel fatto che tale amore sia corrisposto dal Dio[6].
Nello stesso modo in cui il sacrificio vedico determinava necessariamente l’effetto
desiderato, quale risposta dalla divinità cui era rivolto, oppure come la forza
del tapas (“ardore”, “energia
potenziale”) sviluppato nelle pratiche ascetiche degli yogi era tale per cui perfino gli dei lo temevano, non potendo
opporsi ad esso e quindi ai poteri acquisiti dagli yogi.
Anche l’amore delle gopi è sottoposto a prove e tentazioni: “ognuna di esse si crede la preferita o vorrebbe esserlo, l’elemento
sensuale rischia di passare in primo piano”[7].
Ma dopo aver superato anche questi ostacoli, di natura molto sottile, si
realizza una autentica unione con Krishna, con Dio. Il linguaggio del mito così
la descrive: “in un grande cerchio, sulla
sabbia del letto dello Yamuna, il fiume sacro, ogni gopi vede un Krishna di
fianco a lei, e vi è ancora, al centro, un altro Krishna che suona il suo
flauto ammaliatore”[8].
Ciò che il mito ci dice essere avvenuto un
tempo (“C’era una volta…”) nella
regione di Vrindavana, dove Krishna visse tra le gopi, è ciò che avviene realmente nello spirito del devoto
pienamente realizzato, ed è ciò che avviene eternamente nella Vrindavana
celeste, il “paradiso” di Krishna.
Come si è detto, oltre che Divino Amante
Krishna è anche guerriero, stratega e abile diplomatico.
Dopo aver ucciso, insieme con Balarama, il
tiranno Kamsa e i suoi fratelli, Krishna dovette respingere i ripetuti attacchi
di Jarasandha, suocero di Kamsa. Secondo i miti, Jarasandha (“riunito da Jara”)
era in origine un bimbo nato in due parti, o forse due bambini mancanti di un
orecchio, di un occhio, di un braccio ecc. Fu trovato dalla rakshasi Jara, una demonessa divoratrice
di cadaveri, che ricongiunse le due parti (o i due bambini), formando colui che
sarebbe diventato un re nemico di Krishna. Il mito rappresenta storicamente le
lotte tra shivaismo e krishnaismo, ma la vittoria di Krishna può essere letta
come il superamento di un ulteriore ostacolo sulla Via della liberazione, che
consiste nel “vedere un’unità reale in
ciò che non è in effetti che un’unità artificiale e fittizia”[9],
un gravissimo errore per colui che aspira alla comunione con Dio.
Krishna combatté e sconfisse anche il
demone Naraka, figlio di Vishnu e di Bhumi (dea della terra), che rappresenta
forse il letame, simbolo di fertilità.
Naraka aveva rubato l’ombrello regale di
Varuna, dio vedico dei fenomeni celesti, e pretendeva anche l’elefante
Airavata, veicolo di Indra, nato dalla frullatura dell’Oceano di Latte. Su
richiesta di Indra, Krishna tagliò in due Naraka, e le sedicimila apsaras[10]
che egli teneva prigioniere andarono a far parte dell’harem del Dio, che le
sposò tutte. Il saggio Narada volle capire come ciò fosse possibile, e trovò
ognuna di esse tra le braccia del suo sposo, Krishna, l’Unico.
Nel frattempo Krishna aveva sposato anche
sette o otto principesse, che rappresentano le “potenze” delle quali il Dio (e
quindi il devoto) deve assicurarsi la padronanza. Ad esempio, una di esse è Satya,
il cui nome significa Verità (da sat,
essere). La più importante è Rukmini, una incarnazione di Lakshmi, la compagna
di Vishnu (come lo era anche la gopi
Radha).
L’evoluzione della figura di Krishna nella
religiosità indiana tocca il suo vertice in un testo che è considerato la
massima sintesi dell’Induismo di ogni epoca, la Bhagavad Gita, il Canto del Signore, la cui importanza è
pari a quella del Vangelo nel mondo cristiano. Si tratta inoltre di un’opera
letteraria di altissima qualità e tuttora di godibilissima lettura, tradotta
più volte in quasi tutte le lingue[11].
La Bhagavad
Gita, composta probabilmente tra i IV e il II secolo a.C., costituisce
una piccola parte del poema epico Mahabharata: si tratta infatti di
700 versi in un’opera di centomila strofe, quantitativamente pari a otto volte
l’Iliade e l’Odissea messe insieme!
Nella Gita,
Krishna si rivela per Ciò che veramente è, lo Spirito Supremo: “Ogni volta che in qualche luogo
dell’Universo la religione declina e l’irreligione avanza, o discendente di
Barata [Arjuna], Io vengo in persona.
Discendo di era in era per liberare le persone pie, annientare i miscredenti e
ristabilire i principi della religione”[12].
Se in altri episodi del Mahabharata Krishna aveva utilizzato
(senza successo) le sue virtù di mediatore e diplomatico nella disputa tra i
Pandu e i Kaurava, o aveva dato consigli ai suoi alleati (i Pandava) in merito
alla strategia militare da perseguire, nei versi della Gita, nel lungo dialogo con Arjuna, di cui è il Divino Auriga,
Krishna si manifesta come il Dio Supremo, come Persona Suprema. Egli è il
Tutto, la Verità Assoluta, ed ogni cosa non è che una manifestazione delle sue
energie. Qui, secondo le tradizioni devozionali krishnaite, il Dio come Persona
è superiore all’impersonale Brahman, l’Assoluto Non-manifesto. “La Bhagavad Gita spiega che anche il Brahman
impersonale è subordinato alla Persona Suprema [..]. Conoscere il Brahman è
dunque solo una tappa, incompleta in se stessa, sulla via della realizzazione
della Verità Assoluta. [..] la realizzazione [della Persona Suprema] è superiore a quella del Brahman
impersonale [in quanto] la Persona
Suprema è sac-cid-ananda-vigraha”. Con la coscienza di Krishna “si percepiscono contemporaneamente tutti i
suoi attributi trascendentali, sat [eternità], cit [conoscenza] e ananda (la
felicità) nella loro forma perfetta (vigraha)”.
Conoscere la Verità come impersonale
significa per il devoto di Krishna averne una visione limitata, poiché “il Tutto perfetto non può essere privo di
forma, altrimenti sarebbe incompleto e quindi inferiore alle sue creazioni. Per
essere veramente il Tutto, Esso deve includere sia ciò che è nella nostra
esperienza sia ciò che la supera”[13].
Tale Conoscenza Suprema (Cit) è quella a cui pervenne Arjuna
quando Krishna gli si manifestò nella sua forma universale, così come è narrato
nella Gita: mentre gli eserciti dei
cinque fratelli Pandava e dei cento Kaurava (tra loro cugini) erano schierati
l’uno di fronte all’altro nel Kurukshetra
(Campo dei Kuru), nell’India di Nord Ovest, pronti per lo scontro finale, uno
dei figli di Pandu, Arjuna, riconobbe tutti i suoi parenti in entrambe le
formazioni e fu preso dal dubbio: “Non
vedo che cosa possa portare di buono l’uccisione dei miei parenti in questa
battaglia; mio caro Krishna, non potrei neppure desiderare un’eventuale
vittoria, il regno o la felicità”[14].
Krishna, qui nel ruolo di auriga di Arjuna, gli rispose compassionevolmente,
esponendogli “in termini profondamente
filosofici i pregi di una condotta serenamente distaccata. Prese in esame le
categorie e le sottili peculiarità della mente umana, donde scaturiscono azioni
e reazioni di molteplice natura. Mise a fuoco la vera natura della personalità,
la sua portata e statura in correlazione con la società, con il mondo e con
Dio, e così pure quella della vita e della morte. Illustrò vari tipi di yoga e
spiegò l'esigenza di comprendere l'immortalità dell'anima racchiusa nel corpo
umano corruttibile. Krishna sottolineò con ribadita enfasi l'importanza di
ottemperare al nostro dovere con il dovuto distacco, in spirito di serena
dedizione”[15].
Il legame tra Arjuna e Krishna rappresenta
qui il “modello” del perfetto rapporto che deve instaurarsi, secondo le
tradizioni indiane, tra il discepolo (chela)
e il suo Maestro spirituale (guru).
Rapporto che non deve essere di dipendenza, ma di fiducia e abbandono.
Arjuna aveva a quel punto pienamente
compreso gli insegnamenti del Maestro, ed avanzò quindi un’ultima richiesta: “O Persona Suprema, o forma sovrana, Ti vedo
davanti a me così come Tu sei; tuttavia desidero vedere la forma con la quale
Tu penetri nella manifestazione materiale”[16],
ovvero la sua Forma Universale. Krishna concesse allora ad Arjuna occhi divini
con cui poterlo contemplare. Così…
“Arjuna vede in quella forma universale
innumerevoli bocche e innumerevoli occhi. Era tutto prodigioso. Quella forma
era adorna di gioielli divini e sfavillanti e di svariati vestiti. Era
gloriosamente coperta di ghirlande e profumata da varie essenze. Era tutto
magnifico, illimitato e continuamente in espansione. Questo è ciò che vede
Arjuna.
Se migliaia e migliaia di soli si levassero tutti
insieme nel cielo, il loro sfolgorio si avvicinerebbe forse a quello del
Signore Supremo in questa forma universale.
Gli universi, sebbene infiniti e innumerevoli,
Arjuna li vede tutti riuniti in un solo punto, nella forma universale del
Signore.
Allora, confuso e attonito, i peli ritti, Arjuna
rende i suoi omaggi al Signore e a mani giunte comincia a offrirGli delle
preghiere.
Arjuna disse:
Krishna, mio caro Signore, vedo riuniti nel Tuo
corpo tutti gli esseri celesti e molti altri esseri. Vedo Brahma, seduto sul
fiore di loto, e Shiva e i saggi e i serpenti divini.
O Signore dell’universo, vedo nel Tuo corpo
universale innumerevoli forme, occhi, bocche, braccia e ventri, estesi
all’infinito. Non c’è fine, né metà, né inizio in tutto questo.
La Tua forma, ornata di molteplici corone, mazze e
dischi, è difficile a guardarsi per la sua radiosità accecante, che è ardente e
immensurabile come quella del sole.
Tu sei il fine primo e supremo. Nessuno, in tutti
gli universi, eguaglia la Tua grandezza. Tu che sei inesauribile e il più
anziano di tutti. Tu sei il sostegno della religione e l’eterna Persona Divina.
Senza inizio, senza metà e senza fine. Tu sei
l’origine di tutto. Innumerevoli sono le Tue braccia, innumerevoli i Tuoi occhi
maestosi e, tra essi, il sole e la luna. Le Tue bocche sprigionano un fuoco
ardente e la Tua radiosità riscalda l’universo intero.
Sebbene Tu sia Uno, Ti estendi attraverso il cielo,
i pianeti e lo spazio che li separa. Contemplando questa Tua forma terribile, o
grande tra i grandi, vedo i tre sistemi planetari in preda allo sgomento.
Tutti gli esseri celesti si sottomettono ed entrano
in Te. Atterriti, essi Ti rivolgono delle preghiere a mani giunte e cantano gli
inni vedici.
Le differenti manifestazioni di Shiva, gli Aditya, i
Vasu, i Sadhya, i Visvadeva, i due Asvini, i Marut, gli antenati e i Gandharva,
gli Yaksha, gli Asura e i perfetti esseri celesti, tutti Ti contemplano in
preda allo stupore.
O Signore dalle braccia potenti, alla vista dei Tuoi
volti e dei Tuoi occhi senza fine, delle Tue braccia, dei Tuoi ventri e delle
Tue gambe, tutti innumerevoli, e dei Tuoi denti terribili, i pianeti e tutti i
loro abitanti sono sconvolti, come lo sono io.
I Tuoi molteplici colori sfolgoranti riempiono i
cieli, e alla vista dei Tuoi occhi immensi e sfavillanti, e delle Tue bocche
spalancate non posso più mantenere la mia mente in pace, o Vishnu onnipresente.
Ho paura”[17].
Arjuna disse “ho paura”, ma in realtà la conoscenza di Krishna come Persona
Suprema vinse ogni paura: Arjuna risalì sul carro, impugnò l’arco e si dispose
alla guerra, che terminò con la vittoria sua e dei suoi fratelli dopo molti
giorni di combattimenti. La sua profonda fede in Krishna fu ciò che lo salvò
permettendogli di giungere alla Conoscenza Suprema e quindi alla Liberazione da
ogni dubbio e timore, così come la fede di ogni devoto gli consente di ottenere
la vittoria in quel campo di battaglia che è il proprio corpo e il proprio
spirito, giorno dopo giorno, fino alla Conoscenza e alla Felicità Supreme (Sat-Cit-Ananda).
Dopo la fine della guerra, Krishna tornò
nel suo regno, ma trovò che i suoi sudditi si erano abbandonati al lusso e ad
ogni forma di indecenza. Addirittura avevano oltraggiato alcuni veggenti, i
quali avevano maledetto tutta la stirpe, condannando gli abitanti ad uccidersi
l’un l’altro. Di fronte a tale degradazione dell’umanità, Krishna comprese che
la sua vita terrena era giunta alla fine, si stese su una pelle di animale e
aspettò. Un cacciatore, scambiandolo per una preda, lo colpì con una freccia,
uccidendolo. Il Dio tornò allora nella sua dimora celeste, Goloka Vrindavana.
Era venerdì 18 febbraio 3102 a.C., il primo giorno del Kali Yuga.
[1] A. Morretta, Miti
indiani, Ed. Longanesi, pag. 161.
[2] Id.
[3] Opera del XII
secolo. In italiano è stato pubblicato dalle edizioni Adelphi.
[4] Composto a partire
dal IV secolo a.C.
[5] J. Herbert, L’Induismo
vivente, Ed. Mediterranee pag. 167.
[6] Nei libri sulle
religioni dell’India si rimanda spesso, a questo proposito, al bellissimo Cantico dei Cantici dell’Antico
Testamento. Un testo più che sufficiente, insieme a quanto già detto in questa
e in altre occasioni su Krishna, o sullo Yoga,
sullo Zen, sul Taiji…, per dimostrare che quanti genericamente affermano
che le religioni hanno sempre considerato il corpo umano come un nemico, un
involucro da reprimere e mortificare, sono in grave errore. Un recente esempio:
“Di questo abito [cioè il corpo] le religioni hanno sempre avuto una cura
maniacale, da sarti d’alta moda. Hanno spiegato agli uomini come mortificarlo
in vita, codificando una quantità di peccati anche superiore al numero
possibile degli eccessi, e persino come regolarlo dopo la morte”, in M.
Gramellini, Chiedi alla cenere, La Stampa, 3 novembre 2015.
[7] Herbert, pag. 168.
[8] Id.
[9] Id.
[10] Ninfe danzatrici,
personificazioni delle nuvole o delle brume.
[11] Segnaliamo qui
almeno tre versioni in italiano: la traduzione di I. Vecchiotti, commentata da
S. Radhakrishnan e pubblicata da Ubaldini Editore; la traduzione di R. Gnoli col
commento di Abhinavagupta, edita da UTET; la versione con testo sanscrito,
traduzione letterale e letteraria e spiegazioni di A.C. Bhaktivedanta Swami
Prabhupada, pubblicata dalle Edizioni Bhaktivedanta di Firenze.
[12] Bhagavad
Gita, Ed. Bhaktivedanta, IV, 7-8.
[13] Le ultime
citazioni sono state tratte dall’Introduzione alla Bhagavad
Gita pubblicata dalle Edizioni Bhaktivedanta, pag. XXIV. Questa versione della Gita è stata pubblicata a cura della Società internazionale per la coscienza di Krishna
(ISKCON, più nota come Movimento Hare
Krishna), fondata a New
York nel 1966 dal maestro spirituale indiano A.C. Bhaktivedanta Swami
Prabhupada (1896-1977).
L’ISKCON, espressione del movimento vaisnava dell’India di Nord-Ovest, si basa sugli
insegnamenti del mistico bengalese Caitanya Mahaprabhu (1486-1533),
secondo una linea di maestri spirituali che viene fatta risalire a Krishna,
ed ha il fine
di "esportare" i valori, gli insegnamenti e la pratica del movimento vaisnava in Occidente.
Si veda a tale proposito: https://it.wikipedia.org/wiki/Associazione_internazionale_per_la_coscienza_di_Krishna.
Quanto alla presenza degli “Hare Krishna” in Italia si può
consultare il sito http://www.harekrsna.it/.
[14] Bhagavad
Gita, I, 31.
[15] R.K. Narayan, Il
Mahabharata, Ed. CDE su lic. Guanda, pag. 162. Evidentemente non si
tratta di una edizione integrale del poema epico, bensì di un suo brevissimo
sunto in circa 200 pagine!
[16] Bhagavad
Gita, XI, 3.
[17] Bhagavad
Gita, XI, 10-24.