venerdì 4 dicembre 2015

Krishna, l'infinitamente affascinante


L’ottavo Avatara di Vishnu, Krishna, rappresenta in un certo senso l’ultima discesa del dio tra gli umani: dei due successivi si può infatti dire che “Buddha sarà un compromesso e Kalki una escatologia[1]. Krishna è non a caso il dio dell’attuale Kali Yuga, iniziato il giorno della morte del suo aspetto corporeo. Il suo culto è ancora oggi il più diffuso in tutta l’India, all’interno della tradizione vaisnava.
Quella di Krishna è una figura molto complessa, che si è evoluta a partire da tradizioni storiche e mitiche anche molto diverse tra loro, e che riassume in sé “i contrasti più paradossali dell’animo indiano, dal sublime al licenzioso, dal mistero teologico più astruso alla favola popolare[2]. Krishna è Divino Amante e adorabile bambino, pastore e invincibile guerriero, freddo stratega e sposo, Maestro dello Yoga e gioioso suonatore di flauto…, in una serie infinita di ruoli a cui corrisponde un altrettanto grande numero di icone dell’arte indiana e di miti da cui sono nate opere letterarie che fanno parte del patrimonio di tutta l’umanità, quali il Gitagovinda di Jayadeva[3] o il Mahabharata di Vyasa[4].

Vishnu-Krishna discese tra gli uomini perché invocato dalla Terra, i cui abitanti erano tormentati dagli asura. Padre di Krishna era Vasudeva, della casta dei guerrieri, gli ksatriya. La madre era Devaki, cugina del tiranno Kamsa. Poiché Kamsa aveva usurpato il trono al proprio padre Ugrasena, gli era stato predetto che sarebbe stato ucciso da uno degli otto figli di Devaki. Aveva già fatto eliminare i primi sei, ma quando Devaki fu nuovamente in attesa di un figlio, ella “trasferì” miracolosamente l’embrione nel grembo di Rohini, seconda moglie di Vasudeva. Nacque così Balarama, fratello maggiore e compagno di Krishna. Quando poi generò Krishna (chiamato anche Balakrishna, da: bala, bambino), suo ottavo figlio, Devaki lo salvò da Kamsa affidandolo al pastore Nanda e alla moglie Yashoda, che vivevano oltre il fiume Yamuna. Una vicenda che ricorda il mito di Mosè salvato dalle acque, così come la reazione di Kamsa ricorda la storia di Erode: il tiranno infatti, accortosi del duplice inganno, ordinò di uccidere tutti i maschi dell’età di Krishna, ma la famiglia fuggì nella città di Gokula.

Quanto a Krishna, non era un bambino docile e tranquillo: un giorno mangiò della terra, e Yashoda, allarmata, gli aprì la bocca. Ma ebbe una visione impressionante: nel boccone di terra vide l’intero Universo, così come, molto tempo dopo, il guerriero Arjuna vedrà Krishna nella sua forma divina.
Ancora bambino, Krishna dovette difendersi dagli attacchi dei demoni inviati da Kamsa per ucciderlo. Ognuno di essi “corrisponde ad un ostacolo con il quale l’essere umano si scontra con fatica per poter crescere spiritualmente[5]. Ad esempio, una demonessa una volta gli offrì il seno con il latte avvelenato, ma fu essa stessa a morire: è il “veleno” di un amore materno possessivo, soffocante, che blocca anziché far crescere. Un carro minacciò di schiacciarlo: è la presa di coscienza del “peso” del proprio corpo. Un ciclone rischiò di ucciderlo: è l’educazione intellettuale, che quando eccede i propri limiti può deviare il devoto da un corretto percorso evolutivo…
Come Krishna attraversa e supera questi attentati alla sua vita, così il suo seguace, affidandosi a Lui con fede e devozione, supera gli ostacoli che incontra nel cammino spirituale.

Intanto Krishna cresce, diviene un bellissimo giovane, oggetto d’amore per tutte le gopi (pastorelle, da: go, vacca, toro, bue) che vivevano a Gokula. Krishna è qui l’affascinatore delle gopi, che egli incanta con il suono del flauto (Krishna Venugopala). Tra esse, Radha è la sua preferita, e diviene la sua amante in un rapporto perfetto, immortalato nei versi del Gitagovinda (il Canto di colui che protegge le vacche). In effetti, Radha era già la moglie di uno dei pastori tra i quali Krishna viveva e cresceva. Ma se l’amore di Rama per Sita era severo, puritano, e se quello di Shiva per Parvati era tantrico, misterioso, l’amore tra Krishna e Radha è giocoso, spensierato, assolutamente umano e mistico nello stesso tempo: è la trasfigurazione della gioia terrena nell’estasi mistica.
È la caratteristica fondamentale delle correnti religiose conosciute come Bhakti: Bhakti Marga, la Via della Devozione, la Via della liberazione attraverso la Fede, l’abbandono di sé a Dio, anziché attraverso le opere (Karma Marga) o la conoscenza (Jñana Marga).
L’amore di Radha e delle gopi è l’amore del devoto di Krishna per Dio. Il devoto infatti vede se stesso come donna nei suoi confronti, e ha fede nel fatto che tale amore sia corrisposto dal Dio[6]. Nello stesso modo in cui il sacrificio vedico determinava necessariamente l’effetto desiderato, quale risposta dalla divinità cui era rivolto, oppure come la forza del tapas (“ardore”, “energia potenziale”) sviluppato nelle pratiche ascetiche degli yogi era tale per cui perfino gli dei lo temevano, non potendo opporsi ad esso e quindi ai poteri acquisiti dagli yogi.
Anche l’amore delle gopi è sottoposto a prove e tentazioni: “ognuna di esse si crede la preferita o vorrebbe esserlo, l’elemento sensuale rischia di passare in primo piano[7]. Ma dopo aver superato anche questi ostacoli, di natura molto sottile, si realizza una autentica unione con Krishna, con Dio. Il linguaggio del mito così la descrive: “in un grande cerchio, sulla sabbia del letto dello Yamuna, il fiume sacro, ogni gopi vede un Krishna di fianco a lei, e vi è ancora, al centro, un altro Krishna che suona il suo flauto ammaliatore[8].
Ciò che il mito ci dice essere avvenuto un tempo (“C’era una volta…”) nella regione di Vrindavana, dove Krishna visse tra le gopi, è ciò che avviene realmente nello spirito del devoto pienamente realizzato, ed è ciò che avviene eternamente nella Vrindavana celeste, il “paradiso” di Krishna.

Come si è detto, oltre che Divino Amante Krishna è anche guerriero, stratega e abile diplomatico.
Dopo aver ucciso, insieme con Balarama, il tiranno Kamsa e i suoi fratelli, Krishna dovette respingere i ripetuti attacchi di Jarasandha, suocero di Kamsa. Secondo i miti, Jarasandha (“riunito da Jara”) era in origine un bimbo nato in due parti, o forse due bambini mancanti di un orecchio, di un occhio, di un braccio ecc. Fu trovato dalla rakshasi Jara, una demonessa divoratrice di cadaveri, che ricongiunse le due parti (o i due bambini), formando colui che sarebbe diventato un re nemico di Krishna. Il mito rappresenta storicamente le lotte tra shivaismo e krishnaismo, ma la vittoria di Krishna può essere letta come il superamento di un ulteriore ostacolo sulla Via della liberazione, che consiste nel “vedere un’unità reale in ciò che non è in effetti che un’unità artificiale e fittizia[9], un gravissimo errore per colui che aspira alla comunione con Dio.

Krishna combatté e sconfisse anche il demone Naraka, figlio di Vishnu e di Bhumi (dea della terra), che rappresenta forse il letame, simbolo di fertilità.
Naraka aveva rubato l’ombrello regale di Varuna, dio vedico dei fenomeni celesti, e pretendeva anche l’elefante Airavata, veicolo di Indra, nato dalla frullatura dell’Oceano di Latte. Su richiesta di Indra, Krishna tagliò in due Naraka, e le sedicimila apsaras[10] che egli teneva prigioniere andarono a far parte dell’harem del Dio, che le sposò tutte. Il saggio Narada volle capire come ciò fosse possibile, e trovò ognuna di esse tra le braccia del suo sposo, Krishna, l’Unico.
Nel frattempo Krishna aveva sposato anche sette o otto principesse, che rappresentano le “potenze” delle quali il Dio (e quindi il devoto) deve assicurarsi la padronanza. Ad esempio, una di esse è Satya, il cui nome significa Verità (da sat, essere). La più importante è Rukmini, una incarnazione di Lakshmi, la compagna di Vishnu (come lo era anche la gopi Radha).

L’evoluzione della figura di Krishna nella religiosità indiana tocca il suo vertice in un testo che è considerato la massima sintesi dell’Induismo di ogni epoca, la Bhagavad Gita, il Canto del Signore, la cui importanza è pari a quella del Vangelo nel mondo cristiano. Si tratta inoltre di un’opera letteraria di altissima qualità e tuttora di godibilissima lettura, tradotta più volte in quasi tutte le lingue[11]. La Bhagavad Gita, composta probabilmente tra i IV e il II secolo a.C., costituisce una piccola parte del poema epico Mahabharata: si tratta infatti di 700 versi in un’opera di centomila strofe, quantitativamente pari a otto volte l’Iliade e l’Odissea messe insieme!
Nella Gita, Krishna si rivela per Ciò che veramente è, lo Spirito Supremo: “Ogni volta che in qualche luogo dell’Universo la religione declina e l’irreligione avanza, o discendente di Barata [Arjuna], Io vengo in persona. Discendo di era in era per liberare le persone pie, annientare i miscredenti e ristabilire i principi della religione[12].
Se in altri episodi del Mahabharata Krishna aveva utilizzato (senza successo) le sue virtù di mediatore e diplomatico nella disputa tra i Pandu e i Kaurava, o aveva dato consigli ai suoi alleati (i Pandava) in merito alla strategia militare da perseguire, nei versi della Gita, nel lungo dialogo con Arjuna, di cui è il Divino Auriga, Krishna si manifesta come il Dio Supremo, come Persona Suprema. Egli è il Tutto, la Verità Assoluta, ed ogni cosa non è che una manifestazione delle sue energie. Qui, secondo le tradizioni devozionali krishnaite, il Dio come Persona è superiore all’impersonale Brahman, l’Assoluto Non-manifesto. “La Bhagavad Gita spiega che anche il Brahman impersonale è subordinato alla Persona Suprema [..]. Conoscere il Brahman è dunque solo una tappa, incompleta in se stessa, sulla via della realizzazione della Verità Assoluta. [..] la realizzazione [della Persona Suprema] è superiore a quella del Brahman impersonale [in quanto] la Persona Suprema è sac-cid-ananda-vigraha”. Con la coscienza di Krishna “si percepiscono contemporaneamente tutti i suoi attributi trascendentali, sat [eternità], cit [conoscenza] e ananda (la felicità) nella loro forma perfetta (vigraha)”.
Conoscere la Verità come impersonale significa per il devoto di Krishna averne una visione limitata, poiché “il Tutto perfetto non può essere privo di forma, altrimenti sarebbe incompleto e quindi inferiore alle sue creazioni. Per essere veramente il Tutto, Esso deve includere sia ciò che è nella nostra esperienza sia ciò che la supera[13].
Tale Conoscenza Suprema (Cit) è quella a cui pervenne Arjuna quando Krishna gli si manifestò nella sua forma universale, così come è narrato nella Gita: mentre gli eserciti dei cinque fratelli Pandava e dei cento Kaurava (tra loro cugini) erano schierati l’uno di fronte all’altro nel Kurukshetra (Campo dei Kuru), nell’India di Nord Ovest, pronti per lo scontro finale, uno dei figli di Pandu, Arjuna, riconobbe tutti i suoi parenti in entrambe le formazioni e fu preso dal dubbio: “Non vedo che cosa possa portare di buono l’uccisione dei miei parenti in questa battaglia; mio caro Krishna, non potrei neppure desiderare un’eventuale vittoria, il regno o la felicità[14]. Krishna, qui nel ruolo di auriga di Arjuna, gli rispose compassionevolmente, esponendogli “in termini profon­damente filosofici i pregi di una condotta serenamente di­staccata. Prese in esame le categorie e le sottili peculiarità della mente umana, donde scaturiscono azioni e reazioni di molteplice natura. Mise a fuoco la vera natura della perso­nalità, la sua portata e statura in correlazione con la società, con il mondo e con Dio, e così pure quella della vita e della morte. Illustrò vari tipi di yoga e spiegò l'esigenza di com­prendere l'immortalità dell'anima racchiusa nel corpo uma­no corruttibile. Krishna sottolineò con ribadita enfasi l'im­portanza di ottemperare al nostro dovere con il dovuto di­stacco, in spirito di serena dedizione[15].
Il legame tra Arjuna e Krishna rappresenta qui il “modello” del perfetto rapporto che deve instaurarsi, secondo le tradizioni indiane, tra il discepolo (chela) e il suo Maestro spirituale (guru). Rapporto che non deve essere di dipendenza, ma di fiducia e abbandono.
Arjuna aveva a quel punto pienamente compreso gli insegnamenti del Maestro, ed avanzò quindi un’ultima richiesta: “O Persona Suprema, o forma sovrana, Ti vedo davanti a me così come Tu sei; tuttavia desidero vedere la forma con la quale Tu penetri nella manifestazione materiale[16], ovvero la sua Forma Universale. Krishna concesse allora ad Arjuna occhi divini con cui poterlo contemplare. Così…
Arjuna vede in quella forma universale innumerevoli bocche e innumere­voli occhi. Era tutto prodigioso. Quella forma era adorna di gioielli divini e sfavillanti e di svariati vestiti. Era gloriosamente coperta di ghirlande e pro­fumata da varie essenze. Era tutto magnifico, illimitato e continuamente in espansione. Questo è ciò che vede Arjuna.
Se migliaia e migliaia di soli si levassero tutti insieme nel cielo, il loro sfolgorio si avvicinerebbe forse a quello del Signore Supremo in questa forma universale.
Gli universi, sebbene infiniti e innumerevoli, Arjuna li vede tutti riuniti in un solo punto, nella forma universale del Signore.
Allora, confuso e attonito, i peli ritti, Arjuna rende i suoi omaggi al Si­gnore e a mani giunte comincia a offrirGli delle preghiere.

Arjuna disse:
Krishna, mio caro Signore, vedo riuniti nel Tuo corpo tutti gli esseri celesti e molti altri esseri. Vedo Brahma, seduto sul fiore di loto, e Shiva e i saggi e i serpenti divini.
O Signore dell’universo, vedo nel Tuo corpo universale innumerevoli forme, occhi, bocche, braccia e ventri, estesi all’infinito. Non c’è fine, né metà, né inizio in tutto questo.
La Tua forma, ornata di molteplici corone, mazze e dischi, è difficile a guardarsi per la sua radiosità accecante, che è ardente e immensurabile come quella del sole.
Tu sei il fine primo e supremo. Nessuno, in tutti gli universi, eguaglia la Tua grandezza. Tu che sei inesauribile e il più anziano di tutti. Tu sei il sostegno della religione e l’eterna Persona Divina.
Senza inizio, senza metà e senza fine. Tu sei l’origine di tutto. Innumerevoli sono le Tue braccia, innumerevoli i Tuoi occhi maestosi e, tra essi, il sole e la luna. Le Tue bocche sprigionano un fuoco ardente e la Tua radiosità riscalda l’universo intero.
Sebbene Tu sia Uno, Ti estendi attraverso il cielo, i pianeti e lo spazio che li separa. Contemplando questa Tua forma terribile, o grande tra i grandi, vedo i tre sistemi planetari in preda allo sgomento.
Tutti gli esseri celesti si sottomettono ed entrano in Te. Atterriti, essi Ti rivolgono delle preghiere a mani giunte e cantano gli inni vedici.
Le differenti manifestazioni di Shiva, gli Aditya, i Vasu, i Sadhya, i Visvadeva, i due Asvini, i Marut, gli antenati e i Gandharva, gli Yaksha, gli Asura e i perfetti esseri celesti, tutti Ti contemplano in preda allo stupore.
O Signore dalle braccia potenti, alla vista dei Tuoi volti e dei Tuoi occhi senza fine, delle Tue braccia, dei Tuoi ventri e delle Tue gambe, tutti innumerevoli, e dei Tuoi denti terribili, i pianeti e tutti i loro abitanti sono sconvolti, come lo sono io.
I Tuoi molteplici colori sfolgoranti riempiono i cieli, e alla vista dei Tuoi occhi immensi e sfavillanti, e delle Tue bocche spalancate non posso più mantenere la mia mente in pace, o Vishnu onnipresente. Ho paura[17].
Arjuna disse “ho paura”, ma in realtà la conoscenza di Krishna come Persona Suprema vinse ogni paura: Arjuna risalì sul carro, impugnò l’arco e si dispose alla guerra, che terminò con la vittoria sua e dei suoi fratelli dopo molti giorni di combattimenti. La sua profonda fede in Krishna fu ciò che lo salvò permettendogli di giungere alla Conoscenza Suprema e quindi alla Liberazione da ogni dubbio e timore, così come la fede di ogni devoto gli consente di ottenere la vittoria in quel campo di battaglia che è il proprio corpo e il proprio spirito, giorno dopo giorno, fino alla Conoscenza e alla Felicità Supreme (Sat-Cit-Ananda).

Dopo la fine della guerra, Krishna tornò nel suo regno, ma trovò che i suoi sudditi si erano abbandonati al lusso e ad ogni forma di indecenza. Addirittura avevano oltraggiato alcuni veggenti, i quali avevano maledetto tutta la stirpe, condannando gli abitanti ad uccidersi l’un l’altro. Di fronte a tale degradazione dell’umanità, Krishna comprese che la sua vita terrena era giunta alla fine, si stese su una pelle di animale e aspettò. Un cacciatore, scambiandolo per una preda, lo colpì con una freccia, uccidendolo. Il Dio tornò allora nella sua dimora celeste, Goloka Vrindavana. Era venerdì 18 febbraio 3102 a.C., il primo giorno del Kali Yuga.





[1] A. Morretta, Miti indiani, Ed. Longanesi, pag. 161.
[2] Id.
[3] Opera del XII secolo. In italiano è stato pubblicato dalle edizioni Adelphi.
[4] Composto a partire dal IV secolo a.C.
[5] J. Herbert, L’Induismo vivente, Ed. Mediterranee pag. 167.
[6] Nei libri sulle religioni dell’India si rimanda spesso, a questo proposito, al bellissimo Cantico dei Cantici dell’Antico Testamento. Un testo più che sufficiente, insieme a quanto già detto in questa e in altre occasioni su Krishna, o sullo Yoga, sullo Zen, sul Taiji…, per dimostrare che quanti genericamente affermano che le religioni hanno sempre considerato il corpo umano come un nemico, un involucro da reprimere e mortificare, sono in grave errore. Un recente esempio: “Di questo abito [cioè il corpo] le religioni hanno sempre avuto una cura maniacale, da sarti d’alta moda. Hanno spiegato agli uomini come mortificarlo in vita, codificando una quantità di peccati anche superiore al numero possibile degli eccessi, e persino come regolarlo dopo la morte”, in M. Gramellini, Chiedi alla cenere, La Stampa, 3 novembre 2015.
[7] Herbert, pag. 168.
[8] Id.
[9] Id.
[10] Ninfe danzatrici, personificazioni delle nuvole o delle brume.
[11] Segnaliamo qui almeno tre versioni in italiano: la traduzione di I. Vecchiotti, commentata da S. Radhakrishnan e pubblicata da Ubaldini Editore; la traduzione di R. Gnoli col commento di Abhinavagupta, edita da UTET; la versione con testo sanscrito, traduzione letterale e letteraria e spiegazioni di A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada, pubblicata dalle Edizioni Bhaktivedanta di Firenze.
[12] Bhagavad Gita, Ed. Bhaktivedanta, IV, 7-8.
[13] Le ultime citazioni sono state tratte dall’Introduzione alla Bhagavad Gita pubblicata dalle Edizioni Bhaktivedanta, pag. XXIV. Questa versione della Gita è stata pubblicata a cura della Società internazionale per la coscienza di Krishna (ISKCON, più nota come Movimento Hare Krishna), fondata a New York nel 1966 dal maestro spirituale indiano A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada (1896-1977). L’ISKCON, espressione del movimento vaisnava dell’India  di Nord-Ovest, si basa sugli insegnamenti del mistico bengalese Caitanya Mahaprabhu (1486-1533), secondo una linea di maestri spirituali che viene fatta risalire a Krishna, ed ha il fine di "esportare" i valori, gli insegnamenti e la pratica del movimento vaisnava in Occidente.
Quanto alla presenza degli “Hare Krishna” in Italia si può consultare il sito http://www.harekrsna.it/.
[14] Bhagavad Gita, I, 31.
[15] R.K. Narayan, Il Mahabharata, Ed. CDE su lic. Guanda, pag. 162. Evidentemente non si tratta di una edizione integrale del poema epico, bensì di un suo brevissimo sunto in circa 200 pagine!
[16] Bhagavad Gita, XI, 3.
[17] Bhagavad Gita, XI, 10-24.