Apparentemente il significato etimologico
del nome del dio Shiva, “benevolo”,
“fausto”, e il suo ruolo nella Trimurti,
il distruttore, sono tra loro contraddittori. Ma in realtà i due aspetti sono
perfettamente coerenti, integrati, in quanto la dissoluzione dell’universo è un
momento assolutamente necessario per la sua riapparizione. Così come se per
ogni essere “il fine della vita è
progredire spiritualmente [..] bisogna allora continuamente [..] distruggere
nella nostra coscienza ciò che deve lasciare il posto a quello che lo
sostituirà, non si può mettere niente in un vaso già pieno”[1].
È esattamente questo il ruolo del dio
Shiva, una delle figure più complesse di tutto il pantheon induista; nonché una delle più antiche, al punto che la
sua origine coincide con la storia dell’India pre-vedica e vedica,
confondendosi con figure quali Pashupati,
dio degli animali[2],
e Rudra, dio vedico degli elementi
“urlanti” della natura, la natura non coltivata e non conquistata. Nei Veda l’epiteto shiva (benevolente, propizio) era proprio riferito a Rudra.
Successivamente, nelle Upanishad, ciò
che era un attributo di Rudra acquisì una sua autonomia, e Shiva divenne una
figura divina a se stante, pari a Vishnu e Brahma. Lo shivaismo si affermò
quindi come corrente rinnovatrice del brahmanesimo a fianco del vishnuismo.
Shiva è rappresentato in genere come un
uomo seduto nella posizione del loto, quasi nudo, con atteggiamento severo,
concentrato, pienamente consapevole della sua potenza. Otto cobra sono
arrotolati intorno al suo collo: sono il simbolo del Tempo e della Morte, di
cui Shiva è vincitore. I capelli sono molto lunghi, acconciati in alto come una
corona; sul ciuffo frontale sta una luna crescente, anch’essa simbolo del
Tempo. Sulla fronte compaiono i segni distintivi dello shivaismo (tre linee
orizzontali) e/o il terzo occhio, simbolo di chiaroveggenza ed onniscienza. La
sua pelle è spesso blu-azzurra e cosparsa della cenere dei campi di cremazione.
Siede su una pelle di tigre, che rappresenta le forze selvagge della natura e
della mente domate e sublimate. In mano regge un tridente, trishula, quale vincitore dei Tre Mondi. Molto spesso viene
raffigurato in un ambiente montano, tra le nevi dell’Himalaya ove trascorre
lunghissimi periodi di tempo immerso in profonda meditazione, come gli yogi
di cui è protettore.
Suo veicolo è Nandi, un toro bianco (la purezza), le cui zampe sono Verità,
Rettitudine, Pace e Amore. Il toro è forza, potenza, ma anche ignoranza, che
viene però sublimata in conoscenza e saggezza.
Shiva ha moltissimi aspetti e innumerevoli
nomi ed attributi, ed altrettanto numerosi sono i miti che ne raccontano le
gesta. I miti, lo si rammenti, non sono solo dei mezzi per rendere accessibili
alla mente e più comprensibili i concetti filosofici o le conoscenze sul cosmo
e sulla natura. Essi costituiscono anche veri e propri insegnamenti pratici che
consentono al credente-praticante di legarsi, di identificarsi, con la sua
divinità elettiva (ishta-devata),
quella che meglio corrisponde alle sue inclinazioni, alle sue aspirazioni e al
suo livello di maturità spirituale, per proseguire nel proprio sentiero
evolutivo verso la liberazione.
Si è detto che Shiva è raffigurato con la
pelle azzurra, è infatti chiamato Nilakantha, dalla gola blu. Questo
fatto è spiegato da un mito cosmogonico, secondo il quale all’inizio, quando
l’Essere era ancora privo di differenziazioni, esisteva solo l’Oceano di Latte,
al cui centro si trovava il Monte Mandara, l’axis mundi, poggiante alla base sul dorso di una tartaruga (una
delle forme di Vishnu). Un grande serpente arrotolò la parte centrale del suo
corpo intorno al monte, e sulle rive opposte si schierarono due gruppi, uno di
dei e uno di asura[3],
che tenevano gli uni il capo e gli altri la coda del serpente. Tirando
alternativamente fecero ruotare il monte sulla sua base, facendo “frullare”
l’Oceano. Il primo “prodotto” dell’operazione fu però un terribile veleno, che
rischiava di distruggere il mondo. Intervenne allora Rudra (Shiva) che bevve
tutto il veleno, cosa che gli provocò la colorazione bluastra della gola e
della pelle. La frullatura poté poi proseguire, con la creazione di diverse
entità primordiali, prima tra tutte l’amrita,
il nettare dell’immortalità, poi una medicina, la Luna (la bellezza), un
cavallo (la forza), un albero, una vacca, un elefante ecc.
Tutto questo rappresenta il passaggio dal non-differenziato
(l’Oceano di Latte) alle cose differenziate, determinate, all’Universo
manifesto. Ed in effetti la scienza moderna insegna che l’evoluzione dalla
materia inerte alle prime forme viventi avvenne proprio nell’oceano
primordiale…
Shiva è Mahayogi, dio e Maestro
supremo degli Yogi. Egli si dedica
infatti con infinita energia – e con completo successo – alle antiche pratiche
ascetiche dello Yoga. Si narra che un
giorno la sua prima moglie, Sati (il
cui nome significa fedeltà), avendo udito delle maldicenze da parte degli dei
nei confronti del marito, per il dispiacere si lasciò bruciare viva sul rogo
sacrificale (chiamato appunto sati).
Per consolare Shiva, gli dei la fecero rinascere nella forma di Parvati, figlia di Himalaya. Ma Shiva,
che per il dolore aveva perduto il gusto dei piaceri sensuali, si era ritirato
sui monti e praticando lo yoga si era
immerso in profonda meditazione. Per gioco, Parvati gli si avvicinò alle spalle
e gli coprì gli occhi con le mani. Ma le conseguenze del gesto furono
apocalittiche: nell’universo sopraggiunse il caos, i mondi sprofondarono nel
buio. Per fortuna sulla fronte di Shiva si aprì un terzo occhio, e l’universo
fu salvo. Da allora egli fu Trilocana, colui che ha tre occhi.
Shiva è anche Gangadhara, portatore
della dea Ganga, che egli reca tra i capelli. Prima di precipitare sulla Terra,
con disastrose conseguenze, Ganga scorre tra i lunghi capelli di Shiva, che
frenano l’impeto delle acque.
Una delle immagini più note di Shiva,
tipica soprattutto dei culti dell’India del Sud, è lo Shiva Nataraja,
il Signore della Danza (natya), che
rappresenta qui la dissoluzione totale del Cosmo (il Mahapralaya, la fine dei kalpa
di Brahma; mentre il Pralaya riguarda
la fine degli yuga umani), ma anche
la sua rinascita, ed il perfetto equilibrio tra i due aspetti.
In India la danza sacra ha sempre avuto
una grande importanza, come del resto in tutte le culture tradizionali: “danzare è un’antica forma di magia. Il
danzatore si tramuta in un essere dotato di poteri soprannaturali. La sua
personalità si trasforma. Come lo yoga, la danza provoca la trance, l’estasi,
l’esperienza del divino, la realizzazione della propria natura segreta, e
infine la fusione nell’essenza divina. Perciò in India la danza è fiorita
unitamente alle terribili pratiche ascetiche degli eremi silvestri – digiuno,
esercizi respiratori, introversione assoluta [..]. Shiva, perciò, che fra gli
dei è lo yogin per eccellenza, è necessariamente anche il signore della danza”[4].
Alla base della figura di Shiva Nataraja c’è la concezione del ciclo
cosmico di creazione-dissoluzione come Gioco
Divino (Lila, personificata dalla
dea Lalita, la cui forma è l’Universo), rappresentato dalle 108 posizioni della
danza. Infatti, secondo uno dei tanti miti cosmogonici, gli dei, danzando
gioiosamente, avevano sollevato una grande nuvola di polvere, e con essa
crearono per gioco l’universo.
Nelle immagini classiche del Nataraja, il corpo danzante e pieno di
energia di Shiva è circondato da una ruota di fuoco: le fiamme distruttrici di
Agni, ma anche la luce della conoscenza suprema.
Il suo piede destro poggia su un piccolo
essere mostruoso, Apasmara, che raffigura l’ignoranza, l’oscurità spirituale
che il dio schiaccia.
La mano destra superiore regge un
tamburello a clessidra, che dà il ritmo alla danza e che rappresenta altresì il
Suono originario, la vibrazione cosmica primordiale, la Parola che è
all’origine delle cose (“in principio era
il Verbo”). Il suono nella tradizione indiana è associato all’etere, il più
sottile dei cinque elementi, dal quale si dispiegano aria, fuoco, acqua e
terra. La mano sinistra superiore tiene la fiamma della distruzione, creando
così con la destra un perfetto equilibrio dinamico.
La seconda mano destra è nel gesto di abhaya mudra, il sigillo della
non-paura, la sinistra indica invece il piede sinistro sollevato, simbolo della
Liberazione dall’ignoranza e quindi dal ciclo delle sofferenze. La posizione
del braccio ricorda la proboscide di un elefante, in particolare quella di
Ganesh, divinità dal corpo umano e dalla testa di elefante, figlio di Shiva e
di Parvati, il dio che rimuove gli ostacoli dal cammino della Liberazione e che
viene talvolta raffigurato nella postura della danza.
Se le braccia e le gambe di Shiva
esprimono forza e dinamicità, il suo viso rimane invece imperturbabile, “dimora in trascendente isolamento, quale uno
spettatore distaccato. Il suo sorriso interiore, pieno della beatitudine
dell’assorbimento in sé, nega sottilmente, con malcelata ironia, gli eloquenti
gesti delle mani e dei piedi”[5].
Quindi, Shiva come Danzatore Cosmico
riassume in sé tutti gli aspetti: distruzione/creazione, movimento/quiete,
equilibrio/dinamicità, Tempo/Eternità, Assoluto/Mondo manifesto. Qui, Shiva è
tutte e tre le persone della Trimurti.
Altre “forme” di Shiva sono direttamente
collegate alla sessualità, tema di fondamentale rilevanza nella spiritualità
indiana e nello shivaismo in particolare.
Una è Shiva Ardhanarishvara (o Ardhanari), l’aspetto androgino di
Shiva, che comprende in sé sia la natura femminile (il lato sinistro) sia
quella maschile (il destro). È interessante osservare qui che, contrariamente a
quanto accade in Occidente, la parte femminile è vista come dinamica e
creativa, mentre quella maschile è immota, passiva. Il femminile è Shakti,
la potenza divina, personificazione della forza creatrice, aspetto dinamico
dell’Assoluto, la cui origine si perde storicamente nelle antichissime società
matriarcali e nei culti della Grande Madre. Shakti
è Sarasvati per Brahma, è Parvati-Uma-Kali per Shiva, è Lakshmi per Vishnu.
Il simbolo dell’Androgino è quasi del tutto scomparso nell’Occidente di oggi, se
non in certe forme spettacolarizzate (ad esempio alcune famose modelle, o
personaggi come David Bowie). Nei secoli scorsi, lo si ritrovava invece nella
cultura egizia, ed anche nelle figura di Adamo: “Iddio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; lo creò
maschio e femmina”[6].
Ricompare in Platone, nel Simposio, e
in altri momenti della cultura classica greca: in Dioniso, o nel veggente cieco
dell’Odissea, Tiresia, condannato
dagli dei a diventare donna per sette anni perché aveva assistito al
congiungimento di due serpenti sacri. E nelle tradizioni dell’Alchimia, come “coincidentia oppositorum”. Poi
l’androgino scompare, come un fiume che scende sotto la superficie della terra
e lì continua a scorrere, nelle ombre dell’inconscio collettivo, per ritornare
alla luce occasionalmente, in alcune scuole d’arte (i Preraffaelliti), o in
certa letteratura. O nelle opere di studiosi del mito (Eliade) e della mente
umana (Freud, Jung, Groddeck).
Al contrario in India l’Androgino è un
simbolo piuttosto comune, e rappresenta il desiderio amoroso, che culmina con
la nascita di Skanda (o Kumara, o
Kartikkeya), altro figlio di Shiva. In maniera apparentemente paradossale, egli
è il dio della guerra, ma nello Yoga
rappresenta invece, molto sottilmente, il potere della castità, essendo il
frutto dell’energia di Shiva nel momento in cui applica la sua potenza sessuale
a finalità di carattere spirituale anziché alla ricerca del piacere o della
riproduzione.
Come accennato, la “moglie” di Shiva (la
seconda, dopo Sati) è Parvati, dea
della montagna (parvat), figlia di
Himalaya. Ed è in Tibet, sul monte Kailash (sacro agli induisti e ai
buddhisti), che vive la “Shiva family”,
composta dai due sposi e dai loro figli Ganesh e Skanda, oggetto di
raffigurazioni molto diffuse e venerate in India.
Per amore del marito, e per comprenderne
gli insegnamenti, anche Parvati si dedicò alle pratiche ascetiche dello Yoga: anche la donna, afferma il mito,
può giungere alla perfetta Conoscenza, grazie all’amore. Una volta Shiva mise
alla prova Parvati: fingendosi un sacerdote brahmano le parlò male del suo
sposo, ma ella resistette alle tentazioni e Shiva le si rivelò nel suo vero
aspetto.
Parvati è anche Annapurna, colei che è ricolma (purna)
di cibi (annam), dea del nutrimento.
Una volta, mentre Shiva era immerso nella sua ascesi, Parvati dovette cercare
il cibo per i figli, e lo fece andando a mendicare con la ciotola per le
elemosine. Quando Shiva tornò, si adirò con lei, ma poi apprezzò il suo gesto e
la abbracciò con tale forza che da lei nacque una nuova dea, Annapurna, simbolo
di tutte quelle madri che in India devono spesso provvedere ai figli mentre i
mariti si dedicano alle pratiche religiose.
Un ulteriore aspetto di Shiva intimamente
legato ai temi della sessualità è quello di Shiva Lingaraj, il Signore dei Linga. Il linga è un simbolo
fallico, certamente uno degli oggetti sacri più antichi e più numerosi,
presente in diversi momenti e forme nella maggioranza delle espressioni
religiose dell’essere umano. Il nome linga
indica genericamente un segno, un simbolo, un punto di confine o di
connessione tra due oggetti, tra due fenomeni: come lo è ad esempio il fumo,
allorquando la sua presenza ci dice che lì c’è anche il fenomeno fuoco. Più
specificamente, il linga è il segno
del sesso, del potere di generazione. La figura di Shiva ed il culto shivaita
hanno assorbito e sublimato questi elementi, e l’immagine del linga – quasi sempre associato
all’aspetto femminile, la yoni, in un simbolo unitario detto yoni-linga, di cui Ardhanarishvara è la
personificazione – affianca o sostituisce nei templi quella del dio. Un
pilastro, una colonna, anche di ghiaccio come in una grotta himalayana[7],
o una pietra di forma allungata e la sommità arrotondata, oppure una vera e
propria scultura, in marmo o in metallo o in terracotta, poggianti su una base
a forma di yoni, sono per il
fedele shivaita il dio Shiva: “l’unione
dei due principi [maschile e femminile, Shiva e Shakti] rappresenta la somma espressione
dell’energia creativa”[8].
Secondo uno dei miti, il linga ebbe origine come colonna di
fuoco: un tempo, prima della nascita dell’Universo, Vishnu e Brahma disputavano
tra loro su chi dovesse avere il primato. Per separarli, sorse una infinita
colonna di fuoco. Vishnu assunse la forma di cinghiale e si immerse nelle acque
della non-esistenza per trovarne la radice, ma inutilmente. Brahma, in forma di
oca selvatica, volò in alto per cercarne la sommità. Non la trovò, ma quando
tornò mentì, affermando di averla vista. Allora la colonna di fuoco si aprì al
centro e ne uscì Shiva, che era egli stesso il linga di fuoco. Egli emanò dal suo terzo occhio la sua “forma
irata”, Bhairava, il quale tagliò la
quinta testa di Brahma, che sovrastava le altre quattro e dalla quale era stata
proferita la menzogna. Da allora Brahma ebbe solo quattro teste, e il teschio
della quinta divenne il simbolo di una setta shivaita (i Kapalika), asceti che usano una calotta cranica (kapala) come ciotola per le elemosine[9].
Benché sia molto probabile che l’origine
storica del linga risalga ai
simbolismi fallici dei culti della fertilità – presenti nell’antica India come
ovunque nel mondo –, nello shivaismo esso diviene invece il simbolo della
potenza trascendentale del dio, arrivando perfino, nella sua forma aniconica,
ad identificarsi con il Brahman, il Principio Assoluto. Il culto dello yoni-linga va quindi al di là dei
tradizionali culti dell’organo sessuale e della fertilità: l’unione dei
principi maschile e femminile qui non sono legati alla riproduzione, bensì al
raggiungimento – anche attraverso precise tecniche sessuali, come nel Tantrismo
– della Suprema Liberazione, che è Sat-Cit-Ananda
(Essere Supremo, Coscienza Suprema, Beatitudine Suprema).
Tutto questo differenzia notevolmente il
culto del linga dello shivaismo da
quelli facilmente rintracciabili nell’Antico Egitto, in Persia e in Fenicia e
in tutto il Medio Oriente, nel Nord Europa e nell’America pre-colombiana, in
Giappone e in Cina ecc.
E naturalmente nell’antichità classica
greca e romana: basti pensare a Priapo, dio greco della fertilità, figlio di
Afrodite e di Dioniso (quest’ultimo spesso collegato proprio a Shiva).
Ma non si può concludere questo brevissimo
excursus senza una notazione di carattere locale.
I popoli che dal Nord invasero l’India nel
II millennio, chiamati Indoarii (o Ariani: arya
significa nobile), e che sospinsero gli abitanti originari della penisola verso
Sud, erano strettamente imparentati con quelli che dalle steppe dell’Asia
Centrale si spostarono verso l’Europa. Tra essi, uno dei più potenti,
specialmente nel IV-III secolo a.C., fu il popolo dei Celti, che occupò le isole britanniche, parte della Spagna, la
Francia, la Germania meridionale, l’Europa dell’Est fino al Mar Nero e l’Italia
del Nord, Liguria compresa.
Oltre alla ben nota parentela linguistica
tra il sanscrito e il greco, il latino e le lingue neolatine, esistono anche
stretti legami tra le religioni di questi popoli. Ad esempio, nella religione
celtica (che ci è nota anche grazie agli autori Romani) era centrale la
credenza nella reincarnazione, come
lo è nell’induismo. Anche il ruolo della classe sacerdotale celtica, i druidi, per quanto poco si sappia, può
richiamare alcuni aspetti di quello svolto dai brahmini in India.
Un altro interessante – sebbene soltanto
ipotetico – esempio di tale collegamento lo si può trovare nella figura di Cernunnos, dio celtico della natura e
degli animali selvatici, adorato soprattutto in Gallia e nell’Italia
Settentrionale, il cui nome significa “dotato di corna”. Infatti Cernunnos è
raffigurato come un uomo maturo, con barba e capelli lunghi, con il capo ornato
di corna di cervo, seduto a gambe incrociate: proprio come è rappresentato
iconograficamente il già citato Pashupati,
dio indiano pre-vedico “progenitore” di Shiva, il cui nome significa “signore
delle bestie”. Probabilmente più che di una discendenza diretta di Cernunnos da
Pashupati si può parlare di una origine da antichissimi culti sciamanici tra
loro simili, ma le somiglianze tra le due immagini non possono non colpire!
Gli autori Romani (tra cui Giulio Cesare)
cercarono le corrispondenze tra le loro divinità e quelle dei Celti: nel dio
Taranis pensarono di riconoscere Giove, il cui nome latino, Iuppiter, è facilmente ricollegabile al
sanscrito Dyaus Pita, in latino Deus Pater, Padre Celeste. Marte venne
riconosciuto in Teutates, il Toutatis dei fumetti di Asterix. Mercurio era il
dio Esus, anche se forse esus era il
nome collettivo di una categoria di esseri celesti non divini, come gli Asura dell’India, da cui il nome deriva
(o meglio, con il quale è imparentato).
![]() |
Belenus |
E veniamo ad Apollo, che venne
identificato con il dio Belenus
(Belano, Belen), spesso raffigurato come un bel giovane: il dio delle fonti, un
dio luminoso, come il solare Apollo.
Le festività in onore di Belenus si
tenevano all’inizio della primavera, quando comincia la metà luminosa
dell’anno: in quei giorni i sacerdoti druidi accendevano dei grandi falò, i
fuochi di Bel. Dalla radice del suo nome, bel,
che pare significhi “luce”, ebbero origine nomi di località come Belluno, Belfast,
Bielorussia (la Russia bianca), Belgrado (città bianca).
È altresì possibile che in suo onore siano
anche stati eretti monumenti monolitici e cippi agricoli, simboli fallici
quindi, che testimoniano l’esistenza o la persistenza di culti di fertilità. Se
ne trovano in Francia, in Corsica, in Sardegna ed anche nell’Italia
Settentrionale, alcuni proprio in Liguria (Finale Ligure, Varazze).
Partendo di qui, è allora quantomeno
ipotizzabile che proprio nel nome del dio Belenus vada rintracciata l’origine
di quel tipico intercalare ligure che indica proprio ciò che quei simboli di
pietra rappresentano!
[1] J. Herbert, L’induismo
vivente, Ed. Mediterranee, pag. 149.
[2] L’immagine di Pashupati
si ritrova in un sigillo reperito a Mohenjo-Daro (nell’attuale Pakistan) e
risalente al 2700 a.C., su cui è raffigurato seduto in posizione yogica.
[3] Personificazioni
di forze naturali, non necessariamente demoniache, come invece viene spesso
tradotto il termine.
[4] H. Zimmer, Miti
e simboli dell’India, Ed. Adelphi, pag. 139.
[5] Id., pag. 143.
[6] Genesi
1,27.
[7] Ad esempio la
stalagmite di ghiaccio nella grotta di Amarnatha nel Kashmir,
meta di pellegrinaggi.
[8] M. Stutley, J.
Stutley, Dizionario dell’Induismo, Ed. Ubaldini, pag. 238.
[9] Cfr. G. Filoramo
(a cura di), Storia delle Religioni – Vol. 9 India, Ed. La Biblioteca di
Repubblica, pag. 258.
Nessun commento:
Posta un commento