martedì 12 novembre 2013

I 12 anelli: 3 - La coscienza; 4 - Nome-e-forma

III - Vijnana, la coscienza

In un sutra, si dice che un monaco, di nome Sati, andasse ripetendo che la coscienza è ciò che rinasce e trasmigra, che non vi è differenza tra coscienza e rinascita. Il Buddha, avendolo saputo, gli chiese che cosa fosse la coscienza, e Sati rispose: “è ciò che parla, è ciò che sente, che sperimenta le conseguenze delle azioni”. Il Buddha allora gli spiegò che la sua era una errata interpretazione del suo insegnamento, in quanto la coscienza non è indipendente, essa sorge da cause e condizioni, ed è conosciuta da tali cause e condizioni: se proviene dall’occhio e dipende dalle forme visibili, è conosciuta come coscienza visiva, e così via, fino alla coscienza che proviene dalla mente e dipende dai fenomeni della mente, ed è conosciuta come coscienza del pensiero.
Vi sono quindi cinque classi di coscienza sensibile (visiva, uditiva, olfattiva, gustativa, tattile), più la coscienza mentale, che discerne i contenuti della mente.
Quindi, contrariamente a quanto sosteneva Sati, la coscienza non permane dopo la morte per poi rinascere: infatti essa è soggetta a cause e condizioni e pertanto impermanente, condizionata, priva di esistenza intrinseca.
Essa è comunque un agente che opera nel processo di rinascita.
La coscienza (in sanscrito vijnana, in pali vinnana) è il terzo anello del processo del sorgere dipendente (nel bhavachakra è rappresentata da una scimmia che salta da un ramo all’altro): il suo sorgere è condizionato dalle tendenze mentali (samskara, il II anello) che hanno base nell’ignoranza (avidya, il I anello), nella non conoscenza di come opera la mente, di quale sia la sua autentica natura.
La coscienza è un flusso costante di pensieri, pensieri coscienti, ed è anche ogni singolo atto cosciente.
Poiché i processi coscienti sono una delle forme delle attività creative della mente, essi sono condizionati dalle tendenze mentali, i samskara. La coscienza è un prodotto delle azioni compiute nel passato, le quali sono viste come dei semi che avranno nel futuro il loro sviluppo, la loro germinazione. Infatti essa costituisce nella visione buddhista il centro personale responsabile della continuità, nell’ambito di questa vita e di quelle precedenti e successive.
Personale, in quanto il flusso di coscienza è personale e la rinascita è un processo di carattere personale. Fermo restando che non è la persona che rinasce. Il vijnana, la coscienza, non sopravvive alla morte per poi rinascere: il rapporto che lega il vijnana precedente al successivo e un po’ come quello che intercorre tra un “oggetto” e la sua immagine in uno specchio, in cui il nuovo istante di coscienza rispecchia l’ultimo istante di coscienza precedente. Per questo, nel buddhismo viene attribuita una grande importanza ai processi di coscienza di coloro che stanno per morire.

Diventa quindi del tutto comprensibile quanto affermano gli insegnamenti buddhisti sul “purificare la mente” (dove il termine “purificazione” non deve essere inteso solo in senso etico, ma è relativo piuttosto alle qualità di luminosità della mente), purificare la coscienza.
È detto: “Un monaco [o un praticante laico, fenomeno più recente nel buddhismo] deve indagare in modo che, mentre indaga, la sua coscienza di ciò che è esterno rimanga imperturbata, non dispersa, e quella di ciò che è interno non venga instaurata, cosicché non possa essere turbata dall’afferramento”.
Ed anche: “Una volta che l’ignoranza e l’attaccamento sono estinti, né sono più prodotte formazioni karmiche meritorie o non meritorie o indifferenti, allora non rinascerà più la coscienza in un nuovo grembo materno”.
Il metodo consiste nel rendere quieto il vijnana, libero da ogni interesse per ciò che è esterno. La coscienza si purifica, i processi mentali si acquietano, c’è unità, non-differenziazione, c’è vacuità, non-dipendenza.
Poiché il processo che chiamiamo “coscienza” è dinamico, in continua trasformazione, esso può intraprendere cammini opposti tra loro: diventare sempre più dipendente dall’esterno, dagli innumerevoli stimoli del mondo, dai ricordi, dai contenuti mentali – oppure rendersene sempre più indipendente, raggiungere una maggior chiarezza, una più profonda comprensione, una più ampia libertà, sottraendo “combustibile” a ciò che alimenta il ciclo delle rinascite, il samsara, l’incessante produzione di sofferenza.

A proposito dell’importanza della chiarezza della coscienza, Lama Yeshe, grande maestro del buddhismo tibetano, diceva: “Dobbiamo esercitarci per non essere coinvolti da nessuno dei pensieri che di continuo si manifestano nella mente [..]. Perché è così importante contemplare la chiarezza della nostra coscienza? Perché l’origine di ogni felicità e sofferenza [..] è la mente. All’interno di essa dimora la nostra abituale idea erronea – il nostro ignorante e ansioso attaccamento all’ego – che si aggrappa ciecamente all’allucinazione di una concreta esistenza a sè stante come se fosse la realtà [..]. Così più contempliamo la chiarezza della nostra coscienza, meno ci aggrappiamo all’apparente concreta realtà dei fenomeni e meno soffriamo [..]. Osservando l’andirivieni dei pensieri [..] osserviamo il sorgere e il dimorare di immagini apparentemente concrete, che poi si riassorbono nella chiara natura della mente [..]. Anche quando sorgeranno pensieri ed emozioni estremamente distruttivi, come la rabbia e la gelosia, riusciremo a non perdere il contatto con la fondamentale purezza della nostra mente”.
Allora, come diceva il Buddha, “terra, acqua, fuoco e vento non ottengono più un punto di appoggio, qui lungo e corto, sottile e grossolano, puro e impuro, nome e forma cessano tutti senza lasciare traccia”.

IV – Namarupa, il nome e la forma
Quando la coscienza (il III anello), spinta dalle formazioni mentali (le formazioni karmiche, il II anello) e dall’ignoranza (il I), scende nel grembo materno, si dà un ambito fisico, la forma (in sanscrito rupa) ed uno psichico (nama, il nome). È il IV anello del pratitya samutpada, nel quale è raffigurata una barca con due o più persone a bordo, e che è appunto chiamato namarupa, nome-e-forma, ovvero l’individuo nella sua interezza psicofisica.
Coscienza e namarupa sono strettamente collegati. Si legge nei sutra: “Proprio come due fasci di canne stanno in piedi sostenendosi l’un l’altro, così la coscienza dipende da nome-e-forma, e nome-e-forma dipende dalla coscienza”. Se uno dei due viene meno, l’altro cade a terra: con la cessazione di nome-e-forma cessa la coscienza, e viceversa.
Ugualmente interdipendenti sono tra loro i due elementi, il nome e la forma, che costituiscono quell’unità psicofisica chiamata “individuo”, sottostante la quale non vi è un io o un’anima.
Rupa, la forma

Rupa, la forma, il corpo, è l’aspetto più direttamente percepito dai sensi, anche se in realtà non è poi così ben conosciuto: apparentemente possiamo controllare il nostro corpo (le mani, le gambe, gli occhi…), ma moltissimi organi funzionano al di fuori del nostro controllo volontario, ad esempio gli organi interni. Inoltre non conosciamo direttamente nulla di quanto avviene ai livelli più sottili, ad esempio all’interno delle cellule che compongono il corpo.
Ma la materia ha anche dimensioni di gran lunga più piccole: le molecole, gli atomi, le particelle subatomiche.
Ciò che in apparenza è qualcosa di solido, in realtà è un insieme di parti circondate da spazi vuoti, un composto di particelle non percepibili e a loro volta prive di reale solidità, in continua nascita e sparizione, vibrazioni al confine tra massa ed energia.
Ogni elemento che appare come realtà a se stante è invece un flusso dinamico di parti, a loro volta composte…
Quel corpo che chiamiamo “me stesso” è quindi un aggregato di parti, che si compongono in maniera condizionata dal karma, dalla coscienza, dal nutrimento, dal calore. Questo secondo la visione buddhista, che rivela sorprendenti affinità con le più recenti acquisizioni delle scienze moderne, in particolare della fisica da Einstein in poi. Tale visione è ovviamente il frutto non di esperimenti di laboratorio o di calcoli matematici, bensì di pratiche meditative che risalgono ad oltre duemila anni fa, e più ancora, se dal mondo buddhista ci si volge anche alle antiche tradizioni all’interno delle quali il buddhismo ebbe origine (ad es. lo Yoga).
Una riflessione sul corpo condotta da questo punto di vista, ovvero la meditazione su una realtà composta, impermanente, interdipendente, può anche aiutarci a superare problematiche mentali e comportamentali legate al corpo stesso, ad aprirci agli altri senza essere costantemente condizionati dagli aspetti esteriori e dai pregiudizi, ad accettare con maggior distacco e minor sofferenza gli inevitabili eventi di un fenomeno – il corpo, appunto – che, avendo un’origine, conoscerà inevitabilmente malattia, vecchiaia e morte.

Nama, il nome
L’elemento nama, il “nome”, ovvero i processi psichici, assicura insieme alla forma, rupa, una base per la coscienza. Ma nama è altresì una differenziazione della coscienza stessa, ed infatti troveremo la coscienza come uno dei fattori costituenti l’elemento nama.

Nel sutra sulle quattro Nobili Verità, il Buddha dice che “la nascita è dolore”, quindi cita la malattia, la vecchiaia ecc. per poi concludere la prima Verità affermando che “i cinque aggregati dell’attaccamento sono dolore”.
I cinque aggregati (in sanscrito panca skandha, in pali panca khandha, ovvero i 5 mucchi) sono proprio quelli che costituiscono nama-rupa, l’individuo, quel fenomeno psicofisico che chiamiamo “persona”. Il primo aggregato, già visto, è l’aggregato della forma (rupa, il corpo, i fenomeni fisici), gli altri sono i quattro aggregati dei fenomeni mentali (nama), i quali a loro volta sono processi psichici (e non oggetti), anch’essi composti, impermanenti, privi di sostanza propria, altrettanto poco conosciuti e poco controllabili quanto i processi fisici (soprattutto i processi mentali inconsci, che paiono essere del tutto al di là del nostro controllo).

Sono:

- le sensazioni, con i tre tipi di esperienze sensibili: piacevoli, spiacevoli, neutre;
- le percezioni, ovvero il riconoscimento, l’identificazione dei contenuti delle esperienze;
- le formazioni della volizione (i samskara, già incontrati nello studio del II anello del pratitya samutpada), cioè le reazioni della mente alle sensazioni e alle percezioni. Ad es., a seguito di una sensazione (vedo una forma con certe caratteristiche, colori ecc.), che diventa spiacevole nel momento del riconoscimento (identifico la forma come una persona che considero un nemico), nella mente sorge il desiderio di allontanarmi. Si tratta in definitiva di tutti quegli schemi di pensieri, di quegli automatismi mentali, di quelle abitudini ecc. che condizionano le nostre azioni presenti e future;
- la coscienza (già incontrata nel III anello), che riunisce le informazioni provenienti dagli altri aggregati. Essa si pone sempre in una posizione dualistica, distinguendo tra il soggetto cognitore dell’esperienza e l’oggetto. A seconda della natura dell’oggetto, la coscienza si manifesta come coscienza della vista, dell’udito, dell’olfatto, del gusto, del tatto e della mente.
Dal punto di vista buddhista, l’individuo è quindi namarupa, ovvero una unione di elementi fisici e psichici, che sorgono condizionati dalla coscienza (il “sorgere dipendente”!), correlati tra loro in un processo dinamico senza soluzione di continuità. Non una “persona”, dunque, ma un flusso in costante divenire.
A partire di qui, negli anelli successivi verrà preso in considerazione il processo di percezione (di “costruzione”) del mondo esterno, processo già condizionato dall’ignoranza e quindi causa di sofferenza.


Testi
Cornu Dizionario del Buddhismo Ed. Bruno Mondadori
Falà Avijja, l’ignoranza in: Paramita n. 32
Falà Sankhara, le tendenze mentali in: Paramita n. 33
Falà Vinnana, la coscienza in: Paramita n. 34
Falà Namarupa, il nome e la forma in: Paramita n. 35
Johansson La psicologia dinamica del buddhismo antico Ed. Ubaldini

m. Mauro TonKo , novembre 2013

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