giovedì 17 novembre 2016

La filosofia classica antica e l'Oriente


    Già un migliaio di anni prima di Cristo, durante il regno ebraico di Salomone, i contatti tra il mondo mediterraneo e il sub-continente indiano erano relativamente frequenti e costanti, grazie a mercanti, navigatori, soldati, esploratori, ambasciatori. Inoltre, già nel V sec. a.C. esistevano in India importanti colonie greche. Nei Vishnu Purana[1] è detto che “a est di Bharata [l’India] vivono i Kirata e a ovest gli Yavana” chiamati Yona dalla letteratura buddhista. Il che dimostra che i Greci erano ben conosciuti nell’India del V - VI sec. a.C.
I termini che designano i Greci dell’India, Yona e Yavana, derivano direttamente dal nome Ioni, con cui venivano chiamati i Greci che abitavano le coste e le isole dell’Asia Minore (l’attuale sponda egea della Turchia).
Dal punto di vista occidentale, è poi vero ciò che afferma lo studioso tedesco Helmuth Von Glasenapp, secondo il quale “in Occidente i primi ad avere cognizione della filosofia indiana furono i greci[2].
Il primo a “delineare l’India come precisa entità geografica[3] fu il greco Scilace di Carianda, che nel VI sec. a.C. – il periodo in cui visse forse il Buddha Shakyamuni – compì un viaggio fino alla foce dell’Indo per conto del re di Persia Dario I. Nella sua opera intitolata Periplo usò per la prima volta la parola India, dal nome sanscrito del fiume, Sindhu.
L’autore che ci consente di capire con maggior precisione che cosa i Greci effettivamente sapessero dell’India è però lo storico Erodoto (V sec. a.C.), che fornì informazioni di probabile fonte persiana intorno alle tradizioni religiose degli Indiani, fino ad allora sconosciute: essi “non uccidono alcun essere vivente, non coltivano piante, non esiste la proprietà privata, si nutrono solo di leguminacee cotte e non si danno cura di chi di loro cada ammalato o morto. Nulla di quanto qui scrive pare esagerato né inesatto: lo storico si riferisce proprio ai sādhu, gli asceti indù[4].
Anche Ctesia di Cnido scrisse intorno all’India a partire dal 397 a.C., dopo essere stato medico personale di Artaserse II, e descrisse vari fenomeni fantastici, tra cui la formazione di un “siero della verità” che avviene a primavera, condensandosi dalla rugiada. Un’interpretazione simbolica del siero potrebbe rimandare al soma, la bevanda dell’immortalità della tradizione indù, utilizzata nei cerimoniali vedici ma mai identificata con certezza[5].
Quanto alla filosofia, si dice che Platone avrebbe progettato un viaggio in India mai realizzatosi, mentre invece Democrito vi si sarebbe effettivamente recato…ma si tratta di voci quasi certamente prive di valore storico, anche se cercano di dare un fondamento concreto a reali influenze culturali.
Più degna di fede è la notizia dell’incontro tra Socrate e un saggio indiano: “il filosofo ateniese, interrogato sulla materia della sua ricerca, avrebbe risposto che il suo compito consisteva nell’investigazione dell’umano. A questa risposta risuonava la fredda replica dell’indiano: Ma nessuno è capace di capire l’umano senza conoscere il divino[6]. Un evento forse mai accaduto, ma comunque significativo.
Anche di Pitagora diversi autori (Erodoto, Apuleio, Clemente Alessandrino) dicono che si sia recato in India, e sebbene il fatto non abbia serie basi storiche il motivo di questa voce è evidente, e lo si ritrova proprio in un aspetto fondamentale del pensiero del filosofo di Samo (570-495 a.C.~): la dottrina della metempsicosi, la cui diffusione in India era ben nota tra i Greci.
Pitagora poneva a fondamento della propria scuola (che era insieme filosofica, religiosa e politica) una visione dell’uomo e del mondo molto simile a quella di varie tradizioni indiane.
Secondo Pitagora – che molto probabilmente, come il Buddha, Socrate e Cristo non scrisse mai nulla – l’anima sopravvive dopo la morte del corpo, e trasmigra continuamente in altri corpi: in questo senso si parla quindi di metempsicosi, termine composto da μετα (meta, preposizione che indica passaggio) + εν (en, dentro) + ψυχη (psyke, anima, soffio vitale)[7]. Il corpo è per l’anima una prigione, di cui essa ha bisogno per provare sensazioni. Ma al di fuori del corpo l’anima vive in un mondo superiore, al quale accede dopo la morte solo se si è purificata durante la vita corporea. La catena delle trasmigrazioni cessa quindi solo dopo la purificazione dell’anima stessa, che per i pitagorici era il frutto dell’attività teoretica e non, come per altre sette simili, il risultato di riti e pratiche propiziatorie[8].
La filosofia di Pitagora era quindi una vera e propria disciplina spirituale, basata sulla non-violenza, sulla rinuncia, su una alimentazione vegetariana[9], e sostenuta altresì da una comunità di persone motivate dalle stesse finalità. I suoi discepoli erano divisi, come in molte comunità spirituali indiane, tra gli “acusmatici”, cioè gli ascoltatori (non si può non pensare agli śrāvaka del Buddhismo) e i “matematici”, che erano ammessi agli insegnamenti più profondi. Gli insegnamenti erano infatti di ordine essoterico, ovvero rivolti a tutti, oppure esoterico, destinati invece alla cerchia degli iniziati. Pitagora era quindi molto simile ad un guru, il maestro spirituale delle tradizioni indiane.
Una tradizione del I sec. a.C. sosteneva che “i cinque principali indirizzi filosofici che per primi fecero la loro comparsa in Grecia sarebbero delle semplici variazioni delle culture dei cinque principali popoli orientali[10], secondo questo schema: il sistema pitagorico sarebbe nato dalla sapienza cinese, il sistema parmenideo da quella indiana, l’eracliteo da quella persiana, la scuola di Empedocle da quella egiziana, la filosofia di Anassagora dal giudaismo. Tale interpretazione è sicuramente superata, anche perché non renderebbe conto delle peculiarità della filosofia greca rispetto a quella orientale e non terrebbe nemmeno in considerazione le profonde differenze esistenti tra le scuole delle diverse regioni citate (Egitto, India, Cina, Persia ecc., nonché all’interno di ogni singola cultura). È però indiscutibile la derivazione orientale di alcune specifiche dottrine, come nel caso sopra esposto dell’interpretazione pitagorica della filosofia come soteriologia, come via di salvezza e liberazione, e della dottrina della metempsicosi.
Una dottrina che fu successivamente lodata e ripresa da Platone (428-348 a.C.~) ad esempio quando nel dialogo Fedone parla delle anime non purificate, distaccatesi dal corpo “contaminate e immonde” in quanto rimaste sempre “unite e asservite ad esso e di esso innamorate”. Queste anime, dice Platone per bocca di Socrate, “sono costrette ad andare errando attorno a questi luoghi [sepolcri e monumenti funebri], scontando la pena della loro passata esistenza malvagia. E se ne vanno errabonde fino al momento in cui, per il desiderio di quell'elemento corporeo che tien dietro a loro, non vengano legate di nuovo ad un corpo [..].
Ecco qualche esempio: quelle che si abbandonarono ai piaceri dell'ingordigia e alle dissolutezze e alle ubriachezze e non ebbero alcun ritegno, è verosimile che entrino in forme di asini e di altre bestie del genere [..].
Invece, quelle che preferirono ingiustizie, tirannidi e rapine, è verosimile che entrino in forme di lupi, avvoltoi o nibbi [..].
E, anche per le altre anime, non è chiaro dove ciascuna di esse debba andare, secondo la somiglianza delle abitudini che ebbe nella sua vita? [..]
E allora, non saranno forse i più felici e non andranno nei luoghi migliori coloro che praticarono la virtù civile e politica, quella che chiamano temperanza e giustizia, quella che nasce dal costume e dall'esercizio, senza filosofia e senza conoscenza? [..]
È probabile che costoro trapassino in un genere di animali socievoli e mansueti come loro, per esempio in api, in vespe o in formiche, oppure anche, di nuovo, nel genere umano, e che si rigenerino da costoro uomini probi[11].

Alessandro
Nel 327 a.C. iniziò una nuova fase nella quale i rapporti fra oriente e occidente e le conoscenze del mondo indiano ebbero un considerevole incremento: la spedizione del più grande conquistatore di tutti i tempi avvicinò questi due mondi come prima non si sarebbe mai creduto possibile[12].
Alessandro, figlio di Filippo II, sovrano del regno greco di Macedonia, intraprese infatti una grande spedizione verso oriente, con l’intento di conquistare il mondo, fondando un impero insieme militare e culturale. A tal fine c’erano con lui, oltre ad un esercito di 40.000 uomini, anche numerosi scienziati, storici e filosofi.

Ma ancor prima di Alessandro, si dice che anche il dio Dioniso (Bacco per i Romani) abbia compiuto una spedizione in India, intorno alla quale scrisse Arriano (II sec. d.C.). Ivi egli fondò città e diede loro delle leggi; fece dono agli Indiani del vino, come aveva fatto con i Greci; insegnò a seminare e ad arare la terra con i buoi. “Insegnò loro a venerare diversi dèi e in particolare lui stesso suonando cembali e timpani; fece loro imparare la danza dei Satiri[13], il kordax; mostrò come farsi crescere i capelli in onore della divinità…
Dioniso era il dio al centro del culto chiamato Orfismo (da Orfeo, sacerdote del culto stesso). Non era una divinità originaria della Grecia, bensì della Tracia (tra le attuali Grecia, Bulgaria e Turchia Europea). Era quindi estraneo al pantheon dell’aristocrazia greca, ma molto più vicino alle classi popolari, il che spiega le sue caratteristiche “democratiche” e libertarie.
Orfeo e gli animali
Centrale nell’Orfismo – che sta probabilmente alla base delle concezioni pitagoriche – è la concezione della necessità per l’uomo di trasmigrare da un corpo ad un altro (non necessariamente umano), fino a raggiungere la perfezione spirituale. Il corpo è una sorta di prigione in cui l’anima è racchiusa a causa delle sue colpe, ma è anche ciò che le permette di evolversi. La via della salvezza non consiste in una astratta contemplazione del divino, ma negli slanci frenetici, fisici e spirituali, che preparano l’unione effettiva col dio. L’Orfismo ha addolcito gli aspetti più estremi di altre forme del culto dionisiaco, ha sostituito le danze orgiastiche e l’uso rituale del vino e della carne con offerte di vegetali e di incenso e con danze e canti liturgici.
Questi aspetti più o meno estremi del culto dionisiaco hanno permesso ad alcuni studiosi di collegare la figura di Dioniso a quella del dio indiano Śiva e al culto śivaita, fino a far parlare di Dioniso come di uno Śiva occidentale[14]. In effetti sono déi accomunati da infiniti elementi: le sembianze fisiche, i capelli lunghi, l’abbigliamento “selvaggio” o la completa nudità, l’uso rituale di sostanze inebrianti, l’utilizzo di strumenti musicali, soprattutto a percussione, per raggiungere stati di trance mistica e, non ultima, una sessualità vissuta con finalità di ordine spirituale. Dioniso e Śiva rappresentano le energie naturali, sono déi della natura: mostrano all’uomo i metodi per conoscere se stesso (Śiva è il Signore dello Yoga) e per comunicare con tutti gli esseri viventi: gli animali, anche i più feroci, ascoltano rapiti e pacificati la musica del sacerdote dionisiaco Orfeo, e quanto a Śiva, egli è detto Paśupati, Signore degli animali.
Dioniso, si è detto, ha insegnato agli Indiani la danza sacra dei Satiri[15] che porta all’unione col dio. E Śiva è anche Nataraja, il Signore della danza, manifestazione dell’energia ritmica primordiale da cui Tutto ha origine.
Molti secoli dopo, in Germania, Friedrich Nietzsche scriverà: “Potrei credere solo a un dio che sapesse danzare”.

  
Tornando ad Alessandro e alla sua spedizione, dopo lunghe marce e battaglie raggiunse l’attuale Kandahar, oggi in Afghanistan. Entrò poi nella valle di Kabul e qui fondò insediamenti greci che, molto tempo dopo, avrebbero avuto profonda influenza nella storia del subcontinente indiano. Ricevette anche la visita di un giovane rifugiato dal regno di Magadha, nel nord-ovest dell’India, vicino al regno della dinastia Shakya, che dette i natali a Siddhartha Gautama, il Buddha. Il nome del giovane era, pronunciato alla greca, Sandrokottos, ma si trattava di Chandragupta, il futuro fondatore dell’impero Maurya.

Un interessante aneddoto narra che il figlio di Chandragupta, Amitrocate (Amitraghàta, meglio conosciuto come Bindusàra, 320-272 a.C.~) pregò Antioco Sotèr, sovrano di un regno dell’Asia Minore, di mandargli vino dolce, fichi secchi e un sofista greco. An­tioco gli rispose però che avrebbe dovuto rinunciare a quest'ultimo perché, secondo la legge greca, non era permesso vendere sofisti. Il che dimostra che in India si aveva qualche nozione di filosofia greca…

Alessandro e i gimnosofisti
L’esercito di Alessandro attraversò poi l’Indo su un ponte di barche e giunse a Taxila, grande centro commerciale dove convivevano le tre grandi tradizioni spirituali dell’India dell’epoca: Brahmanesimo, Buddhismo, Jainismo. Lì il re incontrò i gimnosofisti (da gymnòs, nudo; quindi i sapienti nudi): asceti di diverse scuole, che avevano rinunciato al mondo per ricercare la liberazione, monaci, yogi, śramana. Cercò di convincere uno di loro, Dandamo, a seguirlo insieme al gruppo dei filosofi greci, ma questi rifiutò dicendo al grande re: “Perché hai viaggiato tanto? Io ho tanta terra quanta ne hai tu o chiunque altro. Anche se possiedi tutti i fiumi, non puoi bere più di me. Apprendi da me questa saggezza: non desiderare nulla e tutto sarà tuo.” Alessandro non fu fermato da queste parole, ma il filosofo Pirrone, che era con lui, ne rimase certamente colpito: quando tornò in Grecia fondò infatti la prima scuola degli Scettici (da sképsis, indagine), nella quale si ritrovano alcuni punti di contatto con la spiritualità indiana: ad esempio, il raggiungimento della pace interiore attraverso la sospensione di ogni giudizio, il rifiuto di ogni dottrina, la in/differenza nei confronti di ogni cosa (atarassìa).
Alessandro non penetrò nell’India come la intendiamo oggi, non giunse nemmeno alla pianura del Gange, ma si fermò nel Punjab e di lì iniziò il viaggio di ritorno, in quanto il suo esercito si era molto indebolito. Ma non rivide più la Grecia: infatti morì a Babilonia nel 323 a.C., a 33 anni. Qualche tempo prima, l’asceta jaina Calano (il “virtuoso”) aveva accettato di seguirlo, ma si era subito ammalato. Dopo aver rifiutato le cure dei medici greci, ritenendo che fosse meglio morire piuttosto che vivere al di fuori delle regole di condotta che egli stesso aveva scelto, salì da solo sul rogo funebre, dicendo ad Alessandro: “Ci rincontreremo a Babilonia”. E così avvenne…
La spedizione di Alessandro diede origine nell’India settentrionale a diversi Regni ellenistici (almeno 36), che durarono fino al 10 d.C., e la cui presenza rafforzò ulteriormente il rapporto e lo scambio linguistico, religioso, filosofico, artistico, scientifico, tra i due mondi. Ne derivò una forma di cultura indo-greca la cui influenza è visibile ancora oggi, sia nell’arte sia in antiche tradizioni dei popoli di quei luoghi[16].
Il più famoso dei re indo-greci fu senza dubbio Menandro I, il quale regnò su un vasto territorio dell’attuale Punjab verso la metà del II sec. a.C.
Oltre che dagli storici greci, è ricordato anche nella letteratura buddhista con il nome di Milinda, che ricorre già nel titolo di un fondamentale testo del buddhismo più antico, il Milindapaňha, ovvero Le domande di Milinda. Si tratta di una serie di dialoghi, paragonabili ai dialoghi platonici, tra il re Menandro/Milinda e un monaco buddhista, Nagasena, di cui non si sa null’altro. Nell’opera vengono toccati un po’ tutti gli argomenti degli insegnamenti del Buddha, con il probabile scopo di creare un testo utile alla diffusione del buddhismo anche nella stessa Grecia. Alla fine del VII libro dell’opera si legge che Milinda, dopo i lunghi colloqui con Nagasena, “cessò dall’aver dubbio alcuno nelle Tre Gemme[17], “divenne pieno di fiducia e libero di brame e tutto il suo orgoglio e presunzione lasciarono il suo cuore” e si dedicò ad una sincera pratica del Dharma. Lasciò il regno al figlio e “abbandonando la vita sotto un tetto per una condizione senza tetto, divenne grande in introspezione e raggiunse lo stato di arhat[18].
La conversione di Milinda non è un fatto storicamente accertato, e i libri del Milindapaňha dal IV al VII sono stati probabilmente aggiunti al testo originario nel IV sec. d.C.[19], ma resta il fatto che Menandro/Milinda fu “esperto di tutte le arti e delle scuole di pensiero indù, un vero ‘filosofo in armi’ […e] questa informazione è una prova della conoscenza da parte della classe dirigente greca della realtà culturale con la quale era ormai da secoli a contatto[20].

Ma la filosofia buddhista “non arrivò affatto a trionfare, [..] scomparve dalla scena [occidentale] senza lasciarvi alcun ricordo[21], per motivi soprattutto politici e geografici: “la frontiera terrestre era chiusa ad occidente dall’impero dei Parti, [..] ostile nei confronti dell’India e delle sue credenze. La via del mare era lunga e pericolosa[22]. Così l’Occidente rimarrà nuovamente chiuso alle dottrine spirituali dell’India, e il nome del Buddha verrà citato solo alcune volte nell’arco di molti secoli. Sarà il cristianesimo a rispondere alle esigenze spirituali e alle aspirazioni di salvezza delle masse di Roma e della Grecia. Per San Girolamo, la tradizione secondo cui il Buddha sia nato dal fianco di una vergine sarà solo una pretesa dei gimnosofisti[23], e nel Medio Evo la natività di Cristo nella sua unicità e storicità verrà contrapposta alle favole “dei bragmani [sic] sulla nascita di Budda, fondatore della loro setta[24].

Prima di questo, però, non si può non parlare, proprio in merito alla ulteriore presenza di elementi della spiritualità indiana nella filosofia classica occidentale, del pensiero di Plotino (nt. in Egitto nel 203 d.C.~), principale rappresentante del neo-platonismo, una scuola che fu “l’ultima manifestazione del platonismo nel mondo antico[25] e che fuse elementi pitagorici, aristotelici e stoici col platonismo stesso. In tal modo il neo-platonismo, che influenzerà moltissimo la filosofia medioevale, arrivò a giustificare un atteggiamento religioso, secondo cui la verità come tale non va ricercata, in quanto già rivelata e garantita dalla tradizione.
Dopo aver vissuto ad Alessandria, città tra Oriente e Occidente, vero e proprio melting pot dell’antichità, Plotino partecipò alla spedizione dell’imperatore Gordiano III contro i Sasanidi, al fine di conoscere le dottrine dei Persiani e degli Indiani, quindi si trasferì a Roma, dove fondò la sua scuola.
Maestro di Plotino fu il fondatore stesso del neo-platonismo, Ammonio Sacca (175-242 d.C.~), il quale non risulta abbia mai scritto alcunché. Secondo alcuni il suo nome è la grecizzazione di Shakya-Muni [se letto come Sacca-Ammonio], ovvero asceta degli Shakya, uno degli epiteti del Buddha storico: per cui Plotino sarebbe stato il discepolo di un monaco buddhista! Fatto storicamente non impossibile, anche se è più probabile che Sacca sia la lettura greca di Saka, termine che designava le popolazioni indo-scite dell’India del Nord. Egli fu comunque un uomo estremamente vicino al mondo indiano, la cui filosofia – in particolare quella delle Upanişad[26] – influenzò sicuramente Plotino e il neo-platonismo[27].
L’espansione dell’impero aveva convogliato a Roma [..] una serie di credenze astrologiche, di pratiche teurgiche[28] e di appelli a esperienze mistiche che Plotino accolse ricodificandole in una costruzione filosofica [..] che consentisse di approdare all’ineffabilità dell’Uno originario, rispondendo all’esigenza di unità espressa nella cultura greca da Parmenide, da Pitagora, da Platone[29].
Per Plotino l’Uno è origine della materia, non in base ad un principio creazionistico (in quanto ex nihilo nihil fit), ma per emanazione: la materia è l’estremo limite della luce che emana dall’Uno, e che l’Uno non può non emanare. In questo Plotino si richiama alle dottrine indiane, per le quali il cosmo è emanazione del Brahman, non è il risultato di una creazione bensì incessante manifestazione del Principio Primo. La materia è per Plotino inganno, illusione, come la fonte nella quale Narciso si rispecchia. E non a caso in una delle Upanişad è detto: “Ci si riflette nel corpo [quindi nella materia] come in uno specchio”.
Ma la materia, il mondo, non sono per questo da disprezzare: Plotino afferma chiaramente che “chi dunque disprezza la natura del mondo non sa quello che fa e fin dove giunga la sua impudenza”, facendo eco così alle esortazioni upanişadiche secondo cui il cibo, anna, rappresenta la vita divina che fluisce nel cosmo, e ugualmente il mondo e l’esperienza umana che vi si svolge non vanno rifiutate, in quanto immagini del divino.
Altrettanto vicina alle concezioni tradizionali indiane è la visione di Dio. Per Plotino il nome meno inadeguato per indicarlo è Uno: Dio è unità (Plotino non è però monoteista, anzi difende il politeismo!), ma è soprattutto esclusione della molteplicità. Al di là di questo Dio è ineffabile: nelle Enneadi, la sua opera pubblicata dai discepoli, l’Uno è spesso indicato come ού τόδε ού τοΰτο (non questo, non quello); non diversamente, nell’antica India risuonava sovente il richiamo dei sapienti vedici: “Neti! Neti!”, non questo! non questo![30]
Già alcuni secoli prima, in Cina, il mitico Laotse aveva scritto nel Tao Te Ching:

Il Tao di cui si può parlare
non è l’eterno Tao.
Il nome che può essere nominato
non è l’eterno nome.
Il senza nome è l’inizio del cielo e della terra
Il nominato è la madre di tutte le cose.[31]

La concezione neo-platonica del Dio come trascendenza, come causa ma non come creatore, come Uno ineffabile – il che segna l’atto di nascita in Occidente della teologia negativa – non può necessariamente portare a concepire l’Uno stesso come salvatore dell’uomo e del mondo, né direttamente né mediante un “intermediario”: l’Uno è amato dal mondo, ma non ama il mondo: dona ad esso il bene con la stessa necessità con cui la luce illumina le cose, o con cui un profumo si diffonde ovunque.
È l’uomo che si ri/volge all’Uno da cui era disceso, che è attratto da esso, che vi si dirige spogliandosi della propria mondanità e umanità: “non è quindi al cristianesimo, ma all’insegnamento delle Upanişad [..] che si rifà l’ascesi di Plotino come itinerario dell’anima per il ricongiungimento con l’Uno. In questo itinerario, che è tanto un’ascesi quanto un’ascesa, l’anima si risveglia dal sogno che l’aveva portata nel mondo. In ciò è la sua resurrezione che, precisa Plotino contro il cristianesimo, è ‘dal corpo e non col corpo’, perché risorgere col corpo equivale a cadere da un sogno all’altro[32].
Il ritorno dell’uomo all’Uno avviene per Plotino attraverso la bellezza, l’amore e l’estasi, momenti progressivi di una via evolutiva che è in realtà il percorso dell’uomo verso la propria interiorità. “La bellezza consente di passare dall’immagine sensibile all’idea universale di cui l’immagine è rivelazione[33]. Nello stesso modo opera l’amore, Eros, nel momento in cui la passione suscitata dall’atto della visione non si limita a considerare la bellezza come espressione di sé, ma rinvia a qualcosa d’altro, ovvero alla ancora oscura presenza dell’Uno. Bellezza e amore non possono però che avvicinare l’uomo all’Uno; la vera unione con l’Uno originario è resa possibile solo dall’estasi (έκστασις), che è ek-stasis, distacco da sé, spoliazione della propria individualità personale, rigetto della molteplicità, rientro in quell’Uno che non è altro-da-sé e che quindi può essere ritrovato solo nel proprio centro.
Plotino insegnava: per l’anima “essere solo in se stessa e non nell’essere, vuol dire essere in Dio[34]. Lì, l’uomo “riposa in Lui come l’amante riposa in colui che ama[35]. E così si esprimeva il veggente delle Upanişad: “Come un uomo nelle braccia della donna amata non è più cosciente né del mondo interiore né di quello esteriore, egualmente questo Puruşa, abbracciato dall’atman, non sa più nulla né del mondo esteriore né di quello interiore[36].




[1] http://zenvadoligure.blogspot.it/2012/10/unisabazia-201011-i-greci-in-india.html
[2] H. Von Glasenapp, Filosofia dell’India, Ed. SEI, pag. 17
[3] E. Zeper, Plotino e l’India, tesi di laurea triennale presso l’Università di Trieste, leggibile nel sito di G. Bertagni: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/filosofiaantica/plotinoindia.pdf
[4] Id., pag. 4
[5] Id., pag. 5. Soma è il nome di una pianta (non meglio identificata) e del suo succo, utilizzato ritualmente come inebriante o forse come vero e proprio allucinogeno durante alcuni tipi di cerimonie.
[6] Id., pag. 5
[7] Si parla anche di metemsomatosi, di trasmigrazione o di reincarnazione, mentre il termine rinascita, usato in ambito buddhista, ha un diverso significato: il buddhismo rifiuta infatti la concezione di un sé dotato di esistenza intrinseca, indipendente ed immortale, che dopo la morte trasmigrerebbe in un altro corpo.
[8] Cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia – Vol. 1, Ed. UTET, pag. 30
[9] Su Pitagora si racconta il seguente aneddoto, riportato dallo storico Diogene Laerzio: “si dice che un giorno, passando vicino a qualcuno che maltrattava un cane, [Pitagora], colmo di compassione, pronunciò queste parole: smettila di colpirlo! La sua anima la sento, è quella di un amico che ho riconosciuto dal timbro della voce
[10] U. Galimberti, Le origini del pensiero filosofico greco, in: E. Severino (a cura di), Storia del pensiero occidentale – Vol. 1, Ed. Curcio, pag. 39
[11] Platone, Fedone, 80B e segg., in: http://new.lettere.unina2.it/Didattica1/Dispense/Morrone/dispense%202013-2014/St.%20Fil.%20ANTICA/fedone.pdf
[12] Zeper, pag. 8
[13] Arriano, L’India, Ed. BUR, pag. 59
[14] Si legga a tale proposito: A. Daniélou, Śiva e Dioniso, Ed. Ubaldini
[15]Geni dei monti e dei boschi, accompagnavano le Menadi nei festeggiamenti di Dioniso. [..] rappresentavano sempre gli appetiti lascivi e i comportamenti licenziosi”. M. Grant – J. Hazel, Dizionario della mitologia classica, Ed. CDE, pag. 271
[16] Per altre notizie sull’argomento si veda: S. Lévi, Il Buddhismo e i Greci, un articolo del 1891, tradotto da chi scrive in: http://zenvadoligure.blogspot.it/2015/02/il-buddhismo-e-i-greci-di-sylvain-levi.html
[17] Le Tre Gemme, o Tre Tesori: il Buddha, ovvero la potenzialità del Risveglio insita in ogni essere senziente; il Dharma, gli insegnamenti; il Sangha, la comunità dei praticanti
[18] L’arhat, o arahant, è colui che, liberato dall’esistenza ciclica, alla morte entra nel Nirvana. Le citazioni sono tratte da: G. Cagnola (a cura di), Dialoghi del Re Milinda, Ed. Phoenix, vol. III, pag. 108-109.
[19] Cfr. Zeper, pag. 15-16
[20] Id. pag. 15
[21] S. Lévi, art. cit.
[22] Id.
[23] Cfr. id.
[24] Id.
[25] Abbagnano, pag. 247
[26] Testi religiosi e filosofici indiani composti in lingua sanscrita a partire dal IX-VIII sec. a.C. fino al IV sec. a.C. Successivamente ne furono aggiunte di minori fino al 1500 d.C. Vennero messe per iscritto solo nel XVII secolo
[27] Zeper, pag. 38
[28] Insieme di pratiche, riti e tecniche estatiche atte a creare rapporti privilegiati fra gli dei e gli uomini
[29] U. Galimberti, La gnosi, Plotino e il neoplatonismo, in: E. Severino cit., Vol. 1, pag. 251
[30] Cfr. Zeper, pag. 39 e segg.
[31] Laotse, Il Tao Te King, Ed. Laterza, pag. 25
[32] Galimberti, La gnosi cit., pag. 253
[33] Id.
[34] Id., pag. 254
[35] Zeper, pag. 40
[36] Zeper, pag. 40. Puruşa indica qui l’essere umano, Atman è il Sé autentico, che si identifica con il Brahman, l’Assoluto. Il parallelismo tra unione di Atman e Brahman (che in realtà non sono mai separati) e l’idea di ritorno dell’anima all’Uno come ritorno in se stessa – ovvero la vera conoscenza di sé come essere se stessi e quindi come liberazione – costituisce il punto di maggior contatto tra Plotino e la filosofia indiana delle Upanişad.